sabato 6 ottobre 2007

Caramello Royale

Crediamo di scegliere.
E di essere liberi.
Tutt’altro. La nostra vita è in qualche modo già scritta.
Siamo destinati a crescere con gli omogeneizzati, ad andare sul passeggino, a guardare la televisione, mentre la baby-sitter fuma sigarette al balcone e parla di nulla al telefonino, a giocare alla Play Station o a navigare sul web. Obbligati a studiare perché costretti ad avere un ruolo sociale, a lavorare, quando libertà dovrebbe essere affrancamento da questo. Dalle elementari all’università, cresciuti per imparare qualcosa che paghi, pasciuti per continuare a spendere quello che si guadagna.
Dov’è la vita in tutto ciò?
Crediamo di scegliere, quando in realtà la vita si basa su indecisioni.
Finte / cosa mi metto per la cena di domani?, vere / avrò il coraggio di dirle che ho toccato una bambina?
Stefano amava casa sua. Anche in relazione al piccolo giardino antistante.
Prese l’hashish e tutto il resto e, posizionato un telo sul prato, si distese a guardare le stelle.
Granelli di luce, spruzzati senz’ordine su una volta scura, imperscrutabile. Anche quell’immagine non aveva corrispondenza con il reale e lui lo sapeva. La distanza che intercorre tra la posizione reale delle stelle e quella che le rende manifeste ai nostri occhi è ragguardevole: un percorso che la luce compie con immensa velocità / nulla più rapida di lei, neanche il pensiero/ ma non tanto da garantire la corrispondenza tra quello che si vede e quello che c’è: le stelle inviano i loro raggi luminosi verso la terra, questa nel frattempo ruota su se stessa, voltando le spalle.
La canna cominciò a fare effetto: il telo scuro che chiamiamo cielo diventò una lavagna su cui una mano invisibile disegnava, scriveva, creava collegamenti altrimenti improbabili. I suoi pensieri estrapolati e messi in atto all’esterno, chiaramente accessibili ora al suo Io.
E cominciò a vedere linee sinuose che si intrecciavano, seguivano un percorso oscuro, ma affascinante, si arrotolavano su se stesse, creando...
…ecco! L’immagine si mostrava nella sua interezza: circonvoluzioni.
Il disegno di un cervello, in proiezione laterale.
Tutto era partito quando si era chiesto cosa o chi avesse creato tutto ciò il cielo le stelle il mondo
Ed ora credeva di avere la risposta.
Se allora tutte le storielle che si raccontano dai tempi dell’età della pietra e del bronzo, altro non sono che proiezioni mentali, ragione che domanda e che risponde, il senso di tutta la vita qual è?
Questa domanda fu bastevole a chiudergli lo stomaco in una morsa: il Caramello Royale l’aveva gettato in un vortice ontologico sulla vita, da cui fu capace di uscire solo prendendo in considerazione gli stimoli biologici che gli provenivano dalle viscere. In altre parole: gli animali non conoscono la depressione, male della ragione, così come non conoscono le pene d’amore, l’ansia, la solitudine, le manie, l’abbandono, la gelosia….
Di nuovo indecisioni: forse non parlarle sarebbe stato meglio.
A cosa sarebbe servito? Avrebbe realmente capito? E allora perché non viversi quel rapporto senza sovrastrutture, lasciando libera l’energia vibrante dentro sé e tagliando fuori la ragione?
Pensò alla decisione appena presa, quella che aboliva quella precedente: non le avrebbe parlato più, almeno per ora.
Forse con Luca sarebbe stato diverso.
Forse.

venerdì 22 giugno 2007

Giri di canna

Il cuore genera intorno a se un campo elettromagnetico potentissimo. Cinquemila volte superiore a quello creato dal cervello. Questo equivale a dire che le interazioni microscopiche che l’uomo tesse con l’ambiente intorno a sé, sono a suo appannaggio prioritario. Le onde di energia che si sprigionano da noi, prendono il via ed esplodono, percorrendo la loro parabola dinamica verso i referenti vicini, partendo dal cuore, piccolo organo di natura muscolare che ci assicura la vita biologica, ancorché non smetta di funzionare….
Se immaginiamo quindi l’ essere umano come cardio-centrico, è in quest’organo che noi tutti conserviamo non la memoria semantica o conoscitiva, ma quella emozionale che alle prime si associa: sensazioni, amore, odio, percezioni, sentimenti, segreti…
Ognuno di noi ha un segreto.
Lo conserva, appunto, in fondo al proprio cuore, inaccessibile alla conoscenza altrui, talvolta alla propria. Nessuna metodica analitica è capace di vagliarlo, incastrandolo in schemi di ricerca e risoluzione preformati e codificati, che negano l’eccedenza, il resto, ciò che avanza, quella quantità numerica infinitesimale e infinita che risulta il bug del problema. Vale a dire la virgola al posto sbagliato, l’errore concettuale, il bagaglio emotivo che accompagna le azioni, motivandole, e che razionalizzato perde di significato. Come dividere per zero.
Ognuno di noi ha un segreto.
Il problema è che l’approccio razionale e analitico che adottiamo, da inutile diventa distruttivo, autoalimenta il processo viziato di conoscenza. E di esclusione della altrui comprensione. Un muro issato attorno a sé, come quello che a Gerusalemme divide cristiani e musulmani, come quello che a Padova divide i tentati dalle puttane tentatrici. Ognuno da una parte del muro. Ognuno che crede di conoscere l’altro come se stesso.
Marco era fortemente convinto che il padre gli stesse nascondendo qualcosa. La sua consapevolezza bastava per entrambi. Li divideva. A prescindere dalla veridicità del pensiero.
Luisa nascondeva a tutti, o quasi, la propria malattia. Negandola anche a se stessa, se non in sprazzi temporali di disperata lucidità.
Stefano si era quasi convinto che la strada migliore da percorrere era uscire allo scoperto. Anche lui cadeva però in errore. E credeva di affrontare il problema razionalmente, cercando di non lasciarsi sovrastare dagli eventi, cercando, per quanto in suo possesso, di controllare le altrui reazioni centellinando le proprie parole. Nella stessa misura in cui si confessa un omicidio premeditato come un furto cleptomane.
Anche loro fumavno erba, cercando in essa il modo per affrontare correttamente il problema. Sperando che le porte della percezione possano essere abolite. Che ognuno venga allo scoperto. Che cadano le maschere, che il cerone duro applicato al viso si liquefaccia, lasciando intravedere carne rossa, carne viva, fatta di sangue e miseria.

venerdì 15 giugno 2007

Rifman Malika

Il Minnie Blu era un locale ricavato da un piccolo appartamento al piano terra di un edificio che, dall’altro lato, sembrava un suicida che si lascerà cadere nello strapiombo sottostante. Nascosto, senza alcuna visibilità su strada. Dovevi conoscerlo e dare un colpo alla porta per accedervi. Come si bussa ad un vicino di casa, come alla stanza affianco, come si usa in un ambiente intimo, per poche persone. Qualche piccola stanza, piccole cappelle laterali di un unico ambiente centrale, dove il bancone rappresentava il centro di gravità, luogo da cui tutto nasce e in cui tutto arriva. Bicchieri pieni che partono, andando in giro per i tavolini, tra le persone in piedi, tra quelle sedute comodamente sui divani, tra archi, porte, pareti… bicchieri vuoti che arrivano, tornando indietro, scegliendo percorsi alternativi, come il figliuol prodigo che ritrova la via di casa, come ognuno nel ruolo di chi l’ha preceduto…
Alcool andava giù e le persone tornavano al bancone diverse.
Alcool andava giù e il brusio di fondo aumentava. Parole spigolose incanalate in sterili discorsi inutili, ingigantiti per celare il silenzio che regna, cominciavano man mano a tessere una tela macchiata di verità…
Marco era in anticipo. Il sole si era fatto spazio tra i nuvoloni del mattino, regalando luce, calore e il motivo per preferire il giardino.
Nella stanza principale del Minnie Blu v’era anche l’accesso al giardino, un piccolo paradiso, incorniciato da alberi e piante e fiori e colori e profumi, che guardava sullo strapiombo, offrendo in dono alla vista uno spettacolare orizzonte.
La città che vive o che dorme.
Piccoli parallelepipedi disposti in maniera frastagliata si mostravano nella loro imponenza. Sicuri della loro immortalità relativa, in altro modo consapevoli che sarebbero sopravissuti alle persone, come indistruttibili, in nessuna maniera frammentabili, ognuno come la più piccola parte non più divisibile.
Ma all’interno di essi, invece, altri solidi, cubi o forse altro…
Scatole cinesi, la più grande che nasconde la più piccola. Visione a strati.
Edifici. Appartamenti. Stanze.
E all’interno le persone che ci vivono, anche queste sicure che non si possa andare più a fondo, che non si possa procedere a sfoltire gli strati e andare in profondità.
In realtà matrioske.
Il giardino, con la sua vista sulla città, forniva questa consapevolezza. E gli avventori in qualche modo lo percepivano. L’alcool aiutava. La mente si apriva.
Marco scelse un tavolino in posizione laterale, ordinò un succo al gusto di mela verde e iniziò a fare una canna.

venerdì 8 giugno 2007

Crema di Marocco | due

Quando pensiamo, lo facciamo nella nostra lingua madre. Utilizziamo parole. Accenniamo discorsi o discutiamo con noi stessi. Una specie di dialogo, domanda e risposta, ha luogo nella nostra mente, lì dove, paradossalmente, lo sdoppiamento è diagnosticato come patologico.
Non pensiamo per immagini o per suoni. Ragioniamo con l’uso delle parole: il pensabile e il dicibile coincidono.
Per una persona estrememente attaccata al linguaggio, alla ricerca del termine più appropriato, sempre intento a dare un nome corretto alle cose, che ancora conosce la differenza tra proiettile e proietto, per una persona che quindi distingue i concetti che sottendono le parole e le frasi e i discorsi, scoprire che questi nascondono delle insidie diventa devastante. Le crepe del linguaggio diventano ferite della mente, squarci nell’animo da cui sgorga ignoranza, avvizzimento, grigiume, morte.
Piove. Questa rappresenta una proposizione elementare: la sua veridicità è messa in discussione da ciò che accade realmente. Per continuare ad essera vera, la pioggia dovrebbe davvero bagnare l’asfalto. In altre parole presenta forte aderenza con la realtà. In altro caso è falsa.
Esistono poi quelle che Wittgeinstein chiama tautologie. Piove o non piove ne è un esempio. Qualsiasi cosa accada quella proposizione resta vera, mai smentibile, falsa in nessun caso. Per contro non esprime nulla: parole al vento, nessun concetto, nessun pensiero.
Il pensabile e il dicibile divergono.
Potrei avere bisogno di tempo. Era una tatutologia e Davide lo sapeva. In realtà Teresa non aveva espresso nulla, non gli aveva comunicato le sue intenzioni. Sembrava una frase buttata lì a roteare nello spazio vuoto creato dalle loro parole dure. Avevano discusso. Di nuovo. Più volte. Davide aveva acceso finalmente il telefonino e l’aveva chiamata. Doveva chiederle spiegazioni sul quel messaggio. E riproporle nuovamente le sue motivazioni.
Ma sembravano parlare due lingue differenti, ognuno intento a farsi capire dall’altro, a imporgli il proprio punto di vista, ad ancorarsi al proprio modo di interpretare le cose ed ad omologarsi a questo, ognuno pronto a aprire bocca, nessuno voleva ascoltare, nessuno voleva capire…
Per di più quella frase, in quanto tautologica in essere, obbligava lo sguardo su altri scenari possibili. Squarciava, alla mente, il quotidiano creatosi durante la loro relazione, lasciando libere vecchie pulsioni incatenate e generandone di nuove.
Pulsioni d’amore e d’odio. Di rivalsa. Di gelosia. Di riscatto. Di vita. Di morte.
Davide rimase dopo un po’ in silenzio.
Quella frase suonava come una minaccia.

lunedì 4 giugno 2007

Blue Buddha

La distanza tra i due era di circa 3 metri. Luca chiuse l’occhio destro e con il sinistro in posizione primaria, tutti i muscoli oculomotori a riposo, fissava il capo del suo professore che, immobile e in piedi, sembrava guardare l’orizzonte vedendo numeri e matrici all’interno delle cose. Poi ruotò lentamente il capo verso destra, l’immagine muta, come con una cinepresa che ruota lentamente sul suo asse.
Una risatina sommessa deflagrò nella sua testa. L’aveva trovato.
L’occhio è come una piccola sfera orientata nello spazio, in cui è possibile stabilire quale sia il davanti e quale il dietro, il sopra e il sotto. Tra gli strati che compongono la superficie posteriore c’è la retina, in tutta la sua estensione, fiera del compito cui è preposta. Anche questa ha però, un tallone d’Achille. Esiste un punto su di essa che non risponde agli stimoli luminosi. Il punto cieco. La macula nera. Il non vedere nel regno della visione, nell’impero dell’immagine, nel luogo in cui la vista diviene re dei sensi, silenziando tutti gli altri, primo e più importante strumento di conoscenza…
Ma Luca vedeva ora il suo professore decapitato: la sua testa era caduta nel punto cieco ed era scomparsa alla mente. Il cervello, dal canto suo, non ci sta, non riesce ad accettare questa inefficacia dell’organo periferico e fa da sé… riempie quel vuoto come meglio crede, usufruendo delle informazioni in suo possesso, secondo un processo detto di riempimento.
Non sa forse che dovrebbe completare quell’uomo in giacca che continua a spiegare e non l’ambiente intorno…
Riaprì l’occhio destro e l’acefalo smise di essere freak: la testa ricomparve…
Luca aveva avuto la dimostrazione di come la visione e la percezione dell’immagine fossero due cose molto simili, ma sostanzialmente differenti. Si alzò e uscì dall’aula. Ma se l’occhio ci trasmette dati sbagliati o quanto meno ambigui, quali sicurezze abbiamo circa le informazioni che conserviamo nel nostro cervello?
La risatina nel suo cervello diventa isterica, esplosa a sussulti, l’aria che torna di rimbalzo verso il basso, come bloccata in un ascensore impazzito. Il diaframma è in preda ad una contrazione paradossa, che si ripete a ritmo di metronomo. La risatina diviene singhiozzo. E con lui lacrime pesanti come dubbi.
Luca si allontanò per cercare un albero sotto la cui protezione potersi fumare un po’ d’erba avvolto da un confortevole silenzio. Blue-Buddha per pensare, ricordare e analizzare. Tutto quello che aveva visto, gli oggetti, le persone, gli eventi, se stesso, tutto andava messo in discussione, perché analizzato in prima istanza parzialmente ovvero con la falsa consapevolezza che tutto fosse accessibile quando visibile.
Blue-Buddha per pensare, ricordare e analizzare.
Questa volta ad occhi chiusi…

lunedì 28 maggio 2007

Postumi di Purple Haze

Più o meno cappi al collo...
Per facilità: immaginate un sacco non rigido, di costosa pelle d'animale, lavorata in modo che risulti pieghevole, segua le curve proposte, negando gli angoli e immaginate ora un liquido al suo interno, che lo riempia lasciando spazio ad una grossa bolla di gas.
La borsa è sospesa in aria, beffandosi della gravità e di Newton che la rinchiuse in una legge; distesi sul suo corpo tanti anelli di corda, cappi al collo, dove il collo non esiste, alle cui estremità nodose mani pronte a stringere. Agiscono non contemporaneamente, ma secondo una disordinata sequenza o forse, secondo un'ordinata tortura...
La forma del sacco muta ricordando vari oggetti: si stringe al centro - clessidra, in alto con maggior costrizione a destra - borsa di tabacco, in basso - sbuffo di fumo...
Al suo interno il liquido non trova pace, danza con la bolla d'aria, disegnando punto a punto curve sinuose, ma la sua pressione aumenta: è stanco e urge la quiete. Vuole fuoriuscire.
Se fisiologicamente lo stomaco possiede un'entrata, superiore, ed un'uscita, inferiore, esistono situazioni in cui i ruoli si invertono. Le mani più forti di tutte agiscono all'unisono: le prime stringono il piloro, il foro d'uscita, le seconde soffocano al centro, costringendo il contenuto verso l'alto, l'acido cloridrico corrode le pareti, sale, ustiona ciò che incontra, distrugge, cerca l'uscita e la guadagna.
vomito.
E così Luisa sporcò di nuovo il cesso di casa sua.
non ti ho mai perdonato. mi guardavi. cicatrici. avrei mai potuto immaginare. non te l'ho mai detto. tu neghi. sapevi più di me. quale il bisogno. ti odio. percezioni differenti. tu sai. eppure ti amo. io negata alla vita. ad una parte di essa.
Ogni volta che le sue ossessioni tornavano a bussare alla sua porta, il più delle volte in punta di piedi, prendendo corpo nella sua mente, nuove mani nodose si rigeneravano da ceneri sopite e stringevano...
E insieme a tutti i residui del pranzo o della cena, Luisa vomitava quei pensieri...

venerdì 25 maggio 2007

Postumi di Indiam Cream

La notte trascorse velocemente, senza lasciare tracce. Un piccolo letargo che aveva cancellato tutti i pensieri raccolti nel dormiveglia, un attimo prima che il sonno profondo si impadronisse di lei. Davide invece, aveva sempre dormito poco con il buio: era animale notturno, il silenzio suo complice, il cervello attivato quando il sole si spegneva nello specchio d’acqua salata che riusciva a scorgere dal suo terrazzo. Con la speranza che avesse risposto al messaggio, Teresa accese il telefonino e andò a fare colazione, cercando di recuperare le idee balenate nella sua testa la sera prima.
Con fatica cominciò a ricordare.
Aveva provato a farsi delle domande. E a darsi delle risposte.
Nonostante fosse inutile mentire, perché nessuno poteva ascoltarla, perché in realtà non stava mettendosi in gioco, perché in fondo non sarebbe servito a scoprire nulla di vero sulla sua persona, trovava estremamente difficile appaiare la giusta domanda con la giusta risposta.
Chi sei e cosa vuoi fare? Una vocina stridula prese corpo nella sua testa, lì dove riposa la corteccia uditiva, fastidiosa come il ronzio di un insetto che vola in prossimità del nostro orecchio. Lo scacciamo con la mano, mentre per riflesso, voltiamo il capo dall’altro lato.
Automaticamente la voce del suo Io, che sembrava essere identica, per timbro e intonazione, a quella che usava tutti i giorni per interagire con gli altri, rispose: Teresa, 25 anni, studentessa, aspirante ambasciatrice.
Sembrava fosse ad un provino o ad un colloquio di lavoro. Cinque righe per descriverti.
Ma in realtà non aveva risposto alla domanda. E la vocina ritornò…
Chi sei e cosa vuoi?
Il suo Io questa volta tacque a lungo. A che serviva rispondere Teresa? In che modo quel nome, quella parola composta da tre sillabe, ognuna da due lettere, poteva colmare lo spazio lasciato da quella terribile domanda.
Provò a chiedersi dov’era l’errore di fondo.
Nella domanda, in qualche modo banale, la cui risposta dovrebbe essere in realtà tanto dinamica quanto la vita stessa e la serie pressoché infinita di eventi che ci plasmano, noi duttili come rame da piccoli, duri come il diamante quando chiudiamo gli occhi al mondo…
Nella risposta, forse ancora più banale, che se in un caso si concretizza nella sterile cronaca dei fatti salienti della nostra vita, dall’altro enumera i buoni propositi, i falsi moralismi, i luoghi comuni, i desideri convenzionali, omettendo le paure, i segreti, i peccati, anche solo immaginati, le fobie, le compulsioni…
Ancora una volta incapace di rispondere.
Il silenzio di Teresa, in questo caso, perse la forza comunicativa che aveva potuto mostrare in altre occasioni e non bastò alla vocina che, dopo un po’, tornò a tuonare: chi sei e cosa vuoi?

lunedì 21 maggio 2007

Postumi di Afghano

Luca era appena andato via.
Seduto sul divano, i neuroni che scaricano con frequenza bassissima ovvero con i pensieri rallentati, le endorfine e i cannabinoidi in circolo che schizzano dolcemente da un sito del cervello all’altro, accompagnando i neuroni sopiti verso il piacere, Stefano si godeva un momento di reale solitudine. Nonostante fosse ancora nudo si era acclimatato, la sua temperatura interna in scia con quella ambientale, risultando sulla sua pelle un piacevole calore.
Rimase così, immobile, il tempo necessario a riprendersi dal sesso e dalla canna.
Dopo aprì gli occhi e decise di suonare.
La prima volta che provò a suonare la tromba impiegò due giorni per emettere suono alcuno. Dopo i primi infruttuosi tentativi si era quasi convinto che fosse rotta. In realtà non riusciva a immettere aria a sufficienza per produrre un suono.
L’aria insufflata attraverso il bocchino percorre la tubatura dello strumento in modi differenti: i pistoni, che hanno possibilità di movimento verticale sul proprio asse, modificano il percorso operato dal flusso d’aria, creando turbolenze e vibrazioni. L’aria scivola lungo le pareti, sbatte contro gli ostacoli, si carica di energia, trema, si infila, poi nella campana il suono prodotto dalle sue vibrazioni si amplifica per fuoriuscire ed esprimersi al mondo, orgoglioso del difficile percorso eseguito.
Non era una questione di polmoni, ma di energia.
Stefano col tempo acquisì la capacità di modificare il suono prodotto dalla tromba, e quindi di suonare in tutte le ottave, variando la pressione delle labbra sul bocchino e la potenza dell’insufflazione. Energia interna che si proietta all’esterno sotto altre forme.
Come un ballo in maschera.
Prese la tromba, ma fu il silenzio.
Si ritrovò, come la prima volta, a non riuscire ad emettere suoni. Gli bastò il secondo tentativo per lasciar cadere a terra la tromba, producendo un rumore sordo e metallico. Si angosciò. Pentagrammi che si dipingono di nero. Imbarazzante silenzio d’attesa che diventa pesante. Anche a respirare.
Ricordò il personaggio di un romanzo di Mishima la cui sordità selettiva verso la musica era freudianamente associata alla sua frigidità e capì.
La sua bocca doveva divenire strumento di amplificazione per le cose che aveva dentro di se. La tromba per un attimo nel ripostiglio.
La musica che creava non era bastevole. Era giunto il momento per le parole.
Doveva parlargli. Doveva parlarle.

venerdì 18 maggio 2007

Silver Haze | due

Ne odore di caffè ne caldi raggi luminosi svegliarono Marco quella mattina.
Il dormiveglia era durato parecchio. La notte lunga. Parecchi sussulti. Troppe volte girato a guardare l’orologio, nella speranza che fosse tanto tardi da svegliarsi. O tanto presto da sperare ancora di potersi addormentare, sognare altro, dimenticare.
Fu l’elettronico trillo del telefonino, fallite le aziende produttrici di sveglie, a riportarlo definitivamente nel mondo reale dove il suolo dona spine e cardi all’uomo e lui risponde concimandolo col sangue.
Si sentiva poco riposato, sfatto, con un leggero mal di testa e con zero voglia di fare le milioni di cose che lo aspettavano. Decise che farsi una doccia sarebbe stato un buon modo per riprendersi e scaricare la tensione, anche muscolare, che aveva accumulato durante la notte. Direzionò la leva dell’apertura dell’acqua su una temperatura piuttosto calda e la sollevò per intero. Getti spessi di acqua calda e potente lo colpirono sulle sue spalle larghe. Inarcò di riflesso la schiena e si godette quel momento di quasi dolore.
I recettori deputati al riconoscimento della temperatura cutanea hanno soglie di stimolo limitate, vale a dire che superati quei limiti, non sono più capaci di fare il loro lavoro. Se nell’intervallo di pertinenza essi sono capaci di inviare segnali al cervello in modo che questo sia in grado di poter compiere paragoni tra temperature diverse e quindi riconoscerle come differenti, al di fuori di esso, tali recettori segnalano una sola cosa: dolore. Diventa di secondaria importanza distinguere due temperature differenti, l’una più piacevole dell’altra magari. L’utilità prima diviene segnalare il pericolo. Di ustione. O di congelamento. Esistono priorità.
Esistono nella vita di tutti, solo che Marco non aveva individuato ancora le proprie e si lasciava trascinare dal flusso di eventi che si presentavano di volta in volta nella propria vita. Tutto il resto era piuttosto schematico e segnato: tutto come previsto, tutto come disegnato da un ritrattista da due soldi ad una fiera di un paese lontano e poco interessante.
Il dolore, se tale poteva essere chiamato, era l’unico modo che aveva per chiudere quel maledetto mal di testa in un cassetto e dimenticarselo lì per un po’.
Che poi quel mal di testa fosse in realtà uno spleen di quel periodo lo convinse a spararsi addosso acqua ancora più calda.
E a spararsi in testa una dose sufficiente di thc.
Di primo mattino non poteva farsi una canna con la Jack Herrer. Distruttivo ibrido multiplo di Northern Light, Skunk ed Haze. Andò a controllare se in cucina gli era rimasta un po’ di Silver Haze. Più soft, morbida, relax, arrotonda gli spigoli, il pesante diviene di nuovo più leggero. Sicuramente migliore per iniziare la giornata. Era stata Kya a procurargliela. La trovò, ma era poca cosa: doveva ricordarsi di chiederle se poteva portargliene un po’ al Minnie blu.
Fece una canna e la fumò molto lentamente, tanto da abbandonare i suoi intenti di andare ai corsi. Rimandò nuovamente.
Vaffanculo le priorità, vaffanculo tutto il resto…

giovedì 10 maggio 2007

Crema di Marocco

La metro di Berlino ha 18 linee, altrettanti snodi di interscambio maggiori e una miriade di punti di contatto tra due o tre percorsi. La fermata dello Zoologischer Garten, quella alle porte del famoso zoo della città, ritrovo di tossici, pusher e puttanelle, è un crocevia per ben quattordici binari che si tagliano tra loro reciprocamente. Non è da meno la fermata di Alexander Platz, dove due statue di Marx ed Engels, nel ricordo e rispetto di un vicino passato ormai desueto e fallito, si lanciano verso il cielo citato da Wenders.
Se nella ovvia vita quotidiana il metodo che applichiamo nel compiere i nostri gesti è quello del risparmio, in linea puramente teorica potremmo partire da una fermata e giungere in un'altra secondo numerosi percorsi alternativi, non necessariamente più brevi. Così come sarebbe possibile saltare su un treno qualsiasi, sulla linea arancione per esempio, e prendere alla rinfusa differenti metro: cambiare sempre, colori differenti, direzioni opposte, senza un ordine preciso, senza soprattutto un fine. Ci si starebbe prendendo gioco del destino, che pignolo tesse la tela della nostra vita. Si aprirebbero possibilità nuove: nuove persone e nuovi volti, nuovi luoghi, tutto si incastrerebbe secondo una nuova inclinazione o eventi in divenire si dissolverebbero prima di essersi ancora realizzati.
Con lo stesso improbabile approccio, Davide, saltando da un sito all’altro attraverso il meccanismo dei link, prendendosi gioco di chi, per lavoro, costruisce sofisticati algoritmi per guidare la navigazione veloce sul web, arrivò al blog di Maurizio Ferraris.
|Ontologia del telefonino|
Iniziò a leggere e si appassionò. Decise allora di fumarsi una canna. Aprì il primo cassetto e prese tutto l’occorrente: dopo qualche minuto era di nuovo alla lettura del blog.
Maurizio Ferraris è un professore di filosofia dell’università di Torino e nel suo sito v’erano stralci di un suo libro.
Immaginiamo uno che ci chiami su un telefono fisso e ci chieda: “Dove sei?”. La risposta sarebbe stupida e scontata: “Dove vuoi che sia? Sono lì, dove mi chiami”. Con il telefonino, è tutto un altro paio di maniche, si incomincia proprio chiedendo: “Dove sei?”, visto che l’interlocutore può essere dappertutto. Magari non ci si fa troppo caso, tanto si è ciechi rispetto al mondo in cui si vive. A questo punto, chiedersi che tipo di oggetto è un telefonino (“ontologia” vuol dire questo), diventa interessante.
Dopo aver letto diversi estratti era chiaro a Davide l’intento di Maurizio Ferraris di mostrare i paradossi in cui le persone si trovano coinvolti grazie all’uso del cellulare e di sottolinearne tutti gli aspetti negativi. L’essere potenzialmente sotto perenne controllo, il dover giustificare la mancata risposta, quando questa, riferita al telefono fisso, significava semplicemente non presenza in quel determinato luogo.
Più leggeva e più Davide si conviceva di aver ragione.
Aveva discusso milioni di volte con Teresa per il fatto che il proprio telefonino fosse “sempre” spento, irraggiungibile o quant’altro. Ma non lo faceva in maniera mirata: era dimenticanza o inconscia voglia di momenti di solitudine, non certo indifferenza.
Guardò l’orologio, erano le 14,47. Fece l’ultimo tiro dalla canna e la spense, poi pensò che forse era ora di accendere il telefonino.
86 secondi più tardi gli arrivò un messaggio. In realtà risaliva a qualche ore prima.
Ho pensato molto a noi.
So quello ke voglio...
tu invece???
Fece una smorfia di disappunto e spense nuovamente il cellulare.


lunedì 7 maggio 2007

Purple Haze

Stappò la bottiglia di Verdicchio e ne versò un po’ nella padella. Ci fu una gran fumata. Con la cucchiarella continuava a rimestare il risotto affinché non si attaccasse e in modo che il vino potesse evaporare dolcemente lasciando al riso quel tipico sentore di mandorla amara.
Per Luisa la cucina significava vita: attraverso fuochi, ricette, spezie e padelle esprimeva la sua essenza. Già i colori del piatto che stava preparando avevano un significato ben preciso.
Il verde regalato dai carciofi: un verde non-speranza, un verde pazienza, un verde rassegnazione. Un verde amaro quanto i carciofi stessi.
E poi il rosa gamberetti: un rosa timido, che non ha la forza di imporsi, che cede il passo al robusto verde. Un rosa che si riscopre solo a intermittenza.
Mentre il risotto compiva la sua parabola di cottura, Luisa beveva, mangiucchiava e fumava una canna che ogni tanto lasciava spegnere nel posacenere: mise in bocca un pezzò di formaggio, fece due tiri e infine si attaccò avidamente al bicchiere in cui aveva versato poco più che un sorso di vino.
La cosa ando così per circa 25 minuti, tempo di cottura di quel risotto che aveva inventato di sana pianta, recuperando gli ingredienti disponibili in frigo.
Quando pensò che riso, carciofi e gamberetti fossero ben cotti e fusi insieme, spiattò e prese a mangiare.
Nulla di strano. Niente di eccezionale. Davvero un cazzo da raccontare, se non fosse per il fatto che l’orologio sulla parete segnava le 3.38 di notte e che Luisa aveva già mangiato una fetta di carne, un po’ di salumi, patate fritte e la pasta e piselli avanzata dal pranzo.
Quando finì di mangiare erano passati 9 minuti.
Prese il cellulare e scrisse velocemente un messaggio.
Aiutami…
Poi, con gli occhi pieni di lacrime non ancora versate, corse in bagno.


venerdì 4 maggio 2007

Afghano

Fecero l'amore due volte.
La prima perchè gli ormoni glielo imponevano: senza pensarci troppo, senza accostarsi all'atto con calma, senza preliminari, il cazzo già duro e l'orgasmo precoce.
La seconda,invece, perchè ad imporglielo era la sete d'animo, la voglia di comunione, il desiderio di sentirsi due come uno. Coccole, carezze, visi che si sfiorano, braccia che si intrecciano, baci leggeri come zanzare, parole d'amore sussurrate all'orecchio con gli sguardi persi alle spalle del compagno. Si ritrovarono poi a compenetrarsi e amplesso fu. Di sottofondo merry christmas Mr. Lawrence.
Raggiunto l'orgasmo si distesero supini sul letto, uno di fianco all'altro, guardando il soffitto. Non una parola. nessuna poteva essere adatta, nessuna capace di descrivere la pace dei sensi, l'estasi, il nirvana della carne che provavano in quel momento, quando l'orgasmo li aveva toccati. Energia pulsante dentro di loro, energia che si sprigiona e che diffonde, colorando le pareti della camera da letto.
Luca prese coraggio: dopo essersi dato una pulita in bagno, tornò nudo nella stanza, cioccolato in una mano, hashish nell'altra.
Si mise seduto nel letto, spaccò un pezzo di cioccolato, lo assaporò ad occhi chusi.
Poi prese a fare una canna.
"che ne pensi?" chiese Luca, mentre cercava un cartoncino per poter fare un filtro.
"cosa?" rispose.
"di noi?"
"per ora sto bene... davvero..."
per ora.... flash-forward:
ci sarà un giorno in cui non saremo più insieme, affianco a me qualcun'altro o forse nessuno.
ciò che era uno si sdoppia, dalla costola di adamo nasce eva, ma eva tradirà adamo...
il problema per Luca non era perdere quello che credeva l'amore della sua vita.
era restare da solo.
stanza vuota. pareti che in origine erano bianche, ora ingiallite dal cinico tempo. solo una sedia in un angolo. nessuna porta, nessuna finestra, nessun varco.
Luca confondeva dentro di se i concetti di solitudine, isolamento ed esser soli: non avevano per lui significati differenti, erano per lui tutti sinonimi, rappresentavano tutti una espressione della sua Paura.
Quale fosse poi il motivo per cui Luca approcciava la questione in maniera fobica, tale da richiedere un uso quotidiano di benzodiazepine e la luce sempre accesa durante la notte, non era dato saperlo.
Neanche Stefano ne era a conoscenza, nonostante ne avessero parlato più volte e nonostante stessero insieme da ormai tre anni.
Stefano si allungò su un fianco e avvicinò il suo volto a quello di Luca.
Gli diede un piccolo bacio, sfiorando con la punta della lingua le labbra dell'altro.
Poi si alzò per andare a farsi una doccia.
"non fumi?"
"lasciala spegnere, faccio due tiri dopo."


mercoledì 2 maggio 2007

Jack Herrer

Aveva sempre sospettato che suo padre gli stesse nascondendo qualcosa. Ne aveva il sentore: la sua cute gli inviava piccoli segnali, stimoli elettrici che infuocavano spie di allarme nel suo cervello stonato dalla Jack Herrer.
Pensò che tutto potesse essere piuttosto normale. Pensò a Kya e al suo rapporto con il padre.
Forse non c’è nulla di speciale… tutti i figli… tutti i padri…
Era confuso: non riusciva a capire cosa lo metteva in crisi.
Aveva sempre sopportato, in maniera più o meno brillante, il rapporto che esisteva con lui, l’albero, il sole, il fallo, la potenza che rinasce sotto altre forme…
Lo aveva semplicemente tagliato fuori dalla propria vita, se non quella quotidiana fatta di stupidi gesti e sterili meccanismi consolidati nel tempo, quella intima e creativa, in divenire, la potenza che si riscopre e si proietta verso nuovi orizzonti, recidendo per sempre il cordone ombelicale.
Potenza che muore. Potenza che nasce.
Come una pianta di sativa. Compie il suo ciclo. Ci regala il seme. Geneticamente affine. Questione di DNA.
Il seme a sua volta compie il ciclo, identico a se stesso, identico nei tempi, a discapito dei ruoli invertiti per gioco dal destino.
Mi trovo proiettato tra dieci anni… ho i baffi…
Questione di DNA.
Marco ripensò allora a Daniel Clowes, pantaloncini corti e maglietta, sguardo spento, rassegnato al proprio destino…
In mente, come marchiato a fuoco, l’immagine di quel fumetto letto da poco.
La soffice nuvoletta fumettistica si prendeva gioco di Marco; scappava e ritornava, si faceva inseguire, dilatava le distanze, ma poi tornava mutata: le curve diventate angoli, la bidimensione che si riscopre trina, il leggero che diventa pesante, il bianco che si macchia di scuro, lo fagocita, lo fonde con se fino a risultarne un colore inguardabile, che non si fa mostra di se, ma nasconde la tela sottostante.
Nuvoletta diventata macigno. Testa pesante. Rumore di fondo.
“Potrò mai oppormi alla tirannia del DNA o sono destinato anch’io ad un futuro di totale infelicità?” *

*da "David Boring" di D.Clowes

martedì 1 maggio 2007

Silver Haze

Il suo colore preferito è il nero. O forse il viola, ma il viola mosto, non certo quello ametista.
Se a quel viola si aggiunge però un bel po’ di rosso…
Mattone scuro e spento. Potrebbe andare.
Certo era che nella vasta scala di colori e pantoni, Kya prediligeva quelli scuri. Le tonalità pastello chiaro erano abolite dal suo assortimento mentale di colori. Come avere un portapastelli solo con matite che disegnano il crepuscolo, la penombra, l’intorno escluso, il reietto della visione centrale…
Ogni mattina, le tende chiuse, era per lei semplicissimo scegliere i capi da indossare: poca variabilità, pochi abbinamenti possibili, poche eccezioni, un qualsiasi capo scuro su un paio di jeans e scarpe rigorosamente basse, in genere All Stars.
Ma per Kya non era solo una questione di abbigliamento. Era una filosofia. Percorrere la strada sterrata che conduce nel bosco: più buia, più incerta, più interessante. Preferirla a quella asfaltata e rigogliosa di luce, che si mostra fiera dei suoi pregi e inconsapevole delle sue brutture.
Quella mattina, appena uscita dal bagno con indosso ancora l’accappatoio, si diresse in cucina.
Normalmente faceva colazione ad un bar all’angolo della strada, leggendo il giornale, ma quel giorno aveva voglia di muffin. Ne prese uno e lo ficcò nel forno. Ci sarebbero voluti circa 15 minuti. Si versò del caffè e prese tritino ed erba dalla borsa. Aveva sempre benedetto l’inventore del tritino: ti permetteva di sminuzzare l’erba in una spumosa polverina e di miscelarla con proporzioni variabili di tabacco, offrendoti una miscela uniforme da assaporare fino all’ultimo tiro. Quello che aveva lei era fantastico: perfettamente nero, piccolo e funzionale. Chiuse la canna con qualche difficoltà; in genere era sempre in compagnia ed erano sempre gli altri a chiuderle, ma all’occorrenza non si tirava indietro. Tra l’altro aveva sempre pensato che fumare da soli era il miglior modo per viaggiare.
Rilassati, siediti sulla tua poltrona preferita, chiudi gli occhi.
Buio. E poi luce.
Potere dell’immaginazione.
O del Thc.
Quella mattina Kya si perse nella folla di idee e progetti che aveva per le ore a venire: era purtroppo però riuscita ad organizzare la sua giornata solo fino all’aperitivo delle 12 quando il telefonino trillò.
1 messaggio ricevuto.
ore 3.47 della notte trascorsa.
Aiutami…
Lo stomaco di Kya si contorse piegato dall’acido.
E il muffin non era ancora pronto...

lunedì 30 aprile 2007

Indian cream

Ho pensato molto a noi.
So quello ke voglio...
tu invece???

Un piccolo colpo sulla cornetta verde. Messaggio inviato.
Teresa impiegò circa 45 minuti per inviargli quella comunicazione.
45 minuti: 11 parole.
In realtà da quando aveva iniziato a pensare a come sarebbe stato meglio agire, aveva ascoltato per ben due volte il volume numero 6 di Cafè del mar: nell’ultima telefonata con Davide i silenzi erano stati maggiori degli scorci di dialogo e anche in quel messaggio chiara era l’intenzione di sovraccaricare i segni di interpunzione, quelli che arrestano il flusso di parole, quelli che arrestano il flusso di rabbia e rassegnazione che giunge al cervello, quelli che impongono una pausa.
Puntini sospensivi che rimandavano a vecchi scontri.
3 punti interrogativi.
3.
Come a chiedersi davvero: chi sei e cosa vuoi da me?
Pause silenzi vuoti tele grigie.
Silenzi pieni di paure, timore di perdersi, timore di incontrarsi, timore di scoprirsi davvero, proiezioni, desideri sopiti, voglia di libertà, voglia di capire…
Non le restava che aspettare.
Ma nel frattempo non poteva non chiedersi quali eventi avrebbero potuto ora scatenarsi.
Si preparò filtro, cartina e sigaretta.
Cominciò a squagliare l’hashish: fissava il fuoco e nel blu alla base della fiamma rivide se stessa prima dell’ultima discussione con Davide: la calma che si estingue, il passivo che si trasforma in attivo, il freddo che diventa caldo, cambia colore, diventa giallo e distrugge, bruciando, quello che incontra. Prese l’hashish tra pollice e indice e lo sbriciolò senza problemi. Il fuoco aveva agito.
Rollò la canna e l’accese.
Il secondo tiro fu più efficace del primo.
Ora poteva davvero domandare.
Spense il telefonino che, come previsto, era rimasto in silenzio e continuò ad aspirare con pacatezza, seduta per terra, fuori al balcone, scrutando l’infinito dentro se stessa.