lunedì 13 aprile 2009

Postumi di Charas | lei

Erano trascorsi ormai una trentina di minuti. Teresa era seduta sul letto, con la schiena leggermente ricurva in avanti e le mani l’una nell’altra, la destra nella sinistra. Fissava con lo sguardo la valigia aperta sul letto: era vuota.
Erano trascorsi ormai una trentina di minuti da quando era rincasata. Gli occhi ancora pieni di lacrime, il viso segnato, il trucco che, scioltosi, le conferiva un’espressione stanca, rinunciataria, distrutta. Aveva preso la valigia dall’armadio e l’aveva poggiata sul letto e poi fu horror vacui.
Si domandò cosa avrebbe dovuto portare con se, ma non fu capace di darsi una risposta. Forse l’errore era nella domanda e quelle giuste erano: dove stava andando? cosa cercava? perché? Fissava la valigia davanti a se, ma era distratta, gli occhi rigonfi di lacrime che scendevano perché da tempo ormai non sbatteva le palpebre, quasi a voler ricercare un altro modo di vedere. Si dice che i ciechi abbiano altri modi di vedere le cose, forse quelli giusti, forse quelli attraverso cui il senso delle cose appare nella sua interezza. Lei aveva gli occhi sbarrati. La valigia continuava ad essere vuota. E nelle orecchie risuonava una canzone, messa in loop, una ripetizione che durava ormai da mezz’ora, a scandire un tempo che scorreva senza senso alcuno.
È so isso/ não tem mais jeito/ acabou, boa sorte.
Probabilmente c’era più verità in queste parole che in tutte le sacre scritture: nulla di più vero, nessuna alternativa. Era finita e buona fortuna a te, Davide, ora devo andare. Un battito irregolare le risalì dal petto fin su, a livello delle tempie e quell’esplosione rappresentava solo il prodromo di un mal di testa che di lì a poco l’avrebbe piegata in due dal dolore. Acabou… eppure c’era qualcosa che non andava e la valigia vuota davanti a lei era lì a farglielo capire.
Não tenho que dizer/ são sò palavras/ e o que eu sinto/ não mudarà.
Lo amava, credeva di amarlo ancora, ma era troppo facile dirlo eppure troppo difficile perché quel sentimento in quella situazione strideva come unghie affilate strisciate su di una lavagna. Lo amava davvero? Se sì, da dove originava quel malessere: perché uno non è in grado di cibarsi del sentimento che vive, perché si è alla ricerca d’altro, pur consapevoli che quello che si ha è forse di quanto più grande mai avuto e che mai si avrà? Le domande si accavallavano, mentre le risposte stentavano ad arrivare: erano solo parole, che per quanto ricercate non riuscivano a descrivere il caos dentro di lei. Le parole categorizzano, pongono delle etichette, rendono statico un qualcosa che è dinamico, che va avanti per poi tornare indietro, modificato, alterato nella forma e nella sostanza. Parole e niente più.
Hà um desencontro/ veja por esse ponto/ hà tantas pessoas especiais.
E infine le parole che tentano di rispondere o meglio che ti mettono davanti alla realtà, nuda e cruda, nella sua interezza. C’è una disconnessione, guardala così, ci sono tante persone speciali. C’è una disconnessione. Disconnessione. Disconnessione.
C’è una disconnessione.
Lo ripeteva perché doveva abituarsi all’idea. Lo ripeteva perché era così. Lo ripeteva e ancora e ancora e ancora, a mo’ di stereotipia mimando il punding dell’eroinomane in crisi d’astinenza.
Hà un desencontro.
C’è una disconnessione.
Eppure la valigia era ancora vuota…