sabato 13 dicembre 2008

Sinsemilla | due

“Cosa è per te l’oceano?”
Marco sorrise e accettò la canna che Kya gli stava porgendo. Fece due tiri profondi, per prendere tempo. Non aveva difficoltà a parlare con lei. Lei era una delle poche persone disposte ad ascoltare mettendosi in gioco, con empatia, senza il distacco che i medici o gli psicologi devono avere o che i disinteressati hanno quando ascoltano distratti, quasi annoiati. Il problema era tutto suo. Non era predisposto al dialogo, abituato com’era a tenere tutto dentro, tentando di canalizzare tutte le sue pulsioni in altro, razionalizzandone analiticamente i contenuti per cacciarne fuori qualcosa di buono.
In silenzio.
Era stato abituato a cavarsela da solo sin da quando era bambino. Sempre e comunque. Era stato abituato così o per chissà quale motivo sconosciuto, così si era abituato a fare.
“Una massa d’acqua senza limiti” rispose poi di getto. Ci fu la pausa di un tiro, poi riprese: “Questo in matematica sarebbe un paradosso: ci sentiamo sicuri sulla terra ferma illudendoci che lì l’acqua non possa arrivare, crediamo che le coste rappresentino il limite che l’oceano non può superare, uno stop invalicabile e sulla terra ferma costruiamo strade e grattacieli, stadi, scuole e chiese in nome di un Dio che plachi l’animo dell’oceano, che lo sedi e lo silenzi e anzi, ci prendiamo gioco di lui, costruendo ponti tra terre lontane, come a voler ricucire lembi di carne sfregiata, ignorando il motivo per cui l’oceano è lì a dividerli…”.
Un nuovo tiro più profondo dalla canna di Sinsemilla gli concesse una pausa non più lunga della precedente, ma più carica ed intensa, struggente. Kya era completamente dentro quella pausa, come immersa in calda acqua amniotica, senza moto apparente, in un tempo come cristallizzato.
“L’oceano ogni giorno ce lo ammonisce; il suo andirivieni sulla battigia, il suo agitarsi continuo, il suo scalpitare senza fine e la sua calma apparente sono lì a pronta lettura: il limite non esiste. Ovvero, se esiste è mutevole, soggetto solo alle leggi divine, per chi in un Dio vuole credere per forza.”
Stavolta il tono della voce di Marco indicava una battuta d’arresto, un porgere il testimone all’interlocutore. Kya riemerse da quella tiepida acqua avvolgente, il suo sguardo cadde su quel foglio appena letto che aspettava sul tavolo, accanto al Porto-tonic, che lei gli concedesse il suo sguardo una altra volta. Kya rispose con la stessa fatica del primo gemito.
“L’oceano non appartiene necessariamente alla vita umana e nella nostra vita i limiti esistono.
Le persone di cui parli…” e indicò quel foglio scritto chiaramente dal pugno di Marco, “… alla fine non si incontrano, un limite le ostacola: una porta di legno sordo e una telefonata senza risposta. Tu stesso hai messo un punto al tuo scritto, hai posto un limite…”
Lui la interruppe: “No! Quel punto è come il segno che l’onda lascia sulla sabbia quando si ritira. Quel segno scompare, assorbito dal basso, restituito all’acqua madre. E quel punto non c’è più. In quel punto c’è il domani dell’esame, è un punto proiettato al futuro, eppure già passato. Tra uno e l’altro di quei righi puoi caderci, sprofondare nel vuoto senza avere mai la possibilità di toccare il suolo. Quel punto è solo la coda visibile di una scia che scorre via, una scia invisibile allo sguardo perché prolungamento dello stesso verso il punto”. Fece una pausa, compiendo l’ultimo sorso del succo che gli era rimasto nel bicchiere. Kya lo imitò e anche lei fece l’ultimo sorso.
“In quel punto c’è il risultato di un esame, c’è il dolore della mancata condivisione, c’è la gioia, c’è il presente che vivo, c’ è il rimpianto di non essere partito, la convinzione di dover completare qualcosa qui…”
E il tempo si sospese: Marco e Kya, immobili, rimasero a lungo in silenzio, ognuno nascosto dove la Sinsemilla li aveva condotti, ognuno confinato in una piega del discorso, guardando lontano, verso la città lontana dove il tempo scorreva, ma sembrava andare lentissimo.

lunedì 15 settembre 2008

Charas

C’erano stati insieme qualche tempo prima, quando la andò a tovare durante il suo Erasmus, e lui non poteva immaginare che quel posto si sarebbe ripresentato nei loro discorsi a tre anni di distanza.
Aveva uno splendido ricordo di quella città: costruita su una collina, i suoi vicoli scendevano da nord verso il fiume Douro, con loro la pioggia scorreva verso il basso per congiungersi con l’acqua madre, quella del fiume, quella dell’oceano. Salite e poi discese, traverse fitte, e poi dietro l’angolo scorci meravigliosi: la facciata di una chiesa risplendente del celeste degli azulejos o la cattedrale o l’università o una frase di Pessoa scritta malamente su di un muro.
Nao sou nada. Nunca serei nada. Nao posso querer ser nada. A parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo.
E quello che sentiva Davide dentro di sé nel momento in cui, girato l’angolo, lesse la scritta sul muro: sulle orme del poeta fingitore avvertiva alla bocca dello stomaco un’energia vibrante, come un diapason costantemente scosso, tutti i sogni del mondo racchiusi nell’ingenuità di chi ha voglia di cambiarlo.
“Io parto…” riuscì a dire a malapena Teresa ora che finalmente avevano trovato dentro se stessi il coraggio per vedersi.
Il fratello di Davide aveva una bottiglieria e lì, per trovare un po’ di pace, si videro.
Nella penombra. A bassa temperatura.
E nella penombra e a bassa temperatura lei esordì così.
Io parto e d’un tratto tutti i sogni del mondo scomparvero.
“Dove…dove vai?”
“In Portogallo”
Ma quella risposta voleva dire solo una cosa: O-Porto. Non c’era altra città portoghese dove lei potesse scappare. E Davide lo sapeva benissimo. In quel momento però non riusciva a coglierne il senso, non ne capiva il perché, non capiva cosa c’entrasse quella maledetta città in quel dannato periodo della sua vita.
Rimase in silenzio per qualche minuto. C’era qualcosa che stava cambiando, c’era qualcosa che gli sfuggiva tra le mani. Prese il charas e fece una canna. Aveva bisogno di riflettere, ma pensieri, ricordi, emozioni si accavallavano e lui non riusciva ad essere lucido.
“Stai scappando…” le disse, forse domandandolo a se stesso.
Ci fu una pausa: il silenzio e le lacrime scandivano il tempo che separò la domanda alla risposta.
“Forse…ma è quello che sento…ho già deciso…ho già prenotato.”
Anche Davide iniziò a piangere. Tutti i sogni del mondo si erano spenti. Ora non riusciva a capire più nulla. Solo avvertiva dentro di sé una paura enorme: temeva di non rivederla mai più.
E questa paura le comunicò, sperando che lei ne facesse tesoro.
Ma ormai erano lontani: distanti nei luoghi, se non ancora fisicamente in maniera proiettiva; nei tempi e nel modo di viverli ed interpretarli; probabilmente erano distanti anche nei sentimenti.
Eppure piansero insieme, come fossero un’unica cosa.
Piansero insieme come solo loro due sapevano fare.
Piansero insieme e si baciarono.
Un solo bacio, intenso come l’amore stesso.
Fu l’ultimo, poi lei andò via dicendo semplicemente Ciao.

giovedì 28 agosto 2008

Postumi di Charas | lui

C’erano stati insieme qualche tempo prima, quando la andò a trovare durante il suo Erasmus, e lui non poteva mai immaginare che quel posto si sarebbe ripresentato nei loro discorsi a tre anni di distanza. Chissà per quale strano distruttivo motivo, alla fine della loro discussione, come spinto da un’impetuosa voglia di trovare delle risposte, scorse la casella dei messaggi nel suo telefonino.
Le persone conservano sul proprio cellulare messaggi di tempi andati, tracce di un passato che non ritornerà, ricordi digitali che spesso non vengono mai più consultati. La casella era ricolma dei suoi messaggi, d’amore e di odio, scritti nell’enfasi di un meraviglioso momento, sulla scia di un amplesso da trattenere il respiro, o scritti nel buio di una stanza, quando il singhiozzare era l’unico agire che produceva un suono, al di fuori del ticchettare delle dita sui tasti di un telefonino maledetto. Ne trovò uno di cui non aveva memoria. Le cose tornano. E noi non possiamo fare altro che prenderne coscienza.
8/12/2006: Mi accorgo che in realtà conosco poco delle persone che mi sono più vicine e questo mi rattrista, ma… fino a che punto è davvero possibile conoscere una persona? Non lo so, ma spero che con te non sia così...
Il suo cuore si spaccò a metà, le lacrime gli annebbiarono la vista. Avrebbe voluto rigirarle la domanda, in tono d’accusa. C’era una richiesta in quel messaggio, una speranza, una voglia di investire in un affetto, di sconfiggere la solitudine…
Fino a che punto è possibile conoscere una persona? Fino a che punto uno può dire di non essere solo? Quanto c’era di vero in quella richiesta, spero che con te non sia così, ora non poteva giurarlo più: erano soli definitivamente, lei l’aveva salutato, per ora… per sempre…
Davide pensò al senso profondo di quella domanda senza risposta, pensò a chi ne fosse il referente. C’erano tante cose che lei non sapeva. Probabilmente c’erano tante cose che neanche lui sapeva e questa consapevolezza, da tempo sottovalutata, ora gli straziava il cuore e apriva la sua mente a interrogativi a cui non era in grado di rispondere. Gli aveva inviato dei segnali? Quel messaggio stesso forse ne era uno? Era stato miope e non aveva capito il significato profondo che quelle parole racchiudevano? Non lo sapeva e non l’avrebbe mai saputo.
Teresa l’aveva salutato con una voce spezzata, in lacrime, afflitta dal dolore, di un dolore necessario, pronunciando un Ciao tanto semplice quanto carico di paura, di quella che uno prova quando fa un salto nel vuoto. Era l’unica cosa da fare: non quella giusta, non quella decisa razionalmente in un ventoso pomeriggio di novembre. Era un imperativo, dettato dallo stomaco, da una pesantezza a livello del diaframma che impedisce di respirare serenamente.
Ciao e quel che restava era una distanza infinita tra loro due, una distanza incolmabile, una distanza che neanche un aereo verso Porto poteva annullare.

mercoledì 27 agosto 2008

Caramello Royale | due

La finestra faceva da cornice: la luce aveva impregnato il cielo di un azzurro scintillante, un azzurro che aveva lottato a lungo prima di vincere il blu che per l’intera notte aveva contraddistinto in cielo rendendolo simile ad una lavagna su cui scrivere. O su cui cancellare.
Stefano era seduto in poltrona a fumare una sigaretta arricchita con Caramello Royale e da quella posizione riusciva a vedere in maniera distinta 3 cose: come tre impronte lasciate su un terriccio umido o sulla sabbia.
Ogni percorso lascia tracce alla nostre spalle.
Uno: il telefono che di lì a poco sarebbe squillato…
Due: la tromba, appoggiata su di un pouf sospinto da un suo uso distratto subito dietro al mobiletto su cui, quasi per dimenticanza, Stefano aveva poggiato il telefono.
Tre: la finestra-cornice, il cielo mattutino che aveva sconfitto quello cupo e denso della notte precedente, quando Stefano si era addormentato sul prato.
3 impronte che conducono ad una porta chiusa. Stefano si era preparato la sera prima a lasciarla così come l’aveva trovata, ma non sapeva ancora che, pur volendo resistere, non avrebbe potuto fare a meno di aprirla e di concedere agli altri la verità, di urlarla al mondo, un mondo che si concentrava in due persone, di pronunciarla con la propria bocca, in modo che anche lui se ne rendesse conto, in modo che anche lui prendesse coscienza che in realtà stava forzandosi, razionalizzando il suo malessere, senza riuscire a coglierne le radici più profonde per porvi fine.
La tromba era lì che inviava riflessi ramati alle pareti della stanza e ai suoi occhi, la tromba era lì a ricordagli che Stefano non suonava da un po’. La tromba era lì in rassegnata attesa, come una moglie che stesa nel letto, spalle al proprio compagno, piange sul cuscino perché da tempo non fanno l’amore, perché da tempo quel letto è matrimoniale solo nelle misure, perché da tempo anela il ritorno di un sentimento che non verrà più, sbiadito nella forma e nella sostanza, sbiadito ogni giorno un po’ di più.
Tre impronte, come tre evidenze in un delitto.
Si era da poco svegliato, leggermente stordito per la canna fumata sul prato, leggermente incriccato per l’umidità che durante la notte si era posata su di lui penetrando poco a poco nelle ossa. Si era da poco svegliato, con la testa non ancora in funzione, ma al minimo dell’attivazione possibile, si era preparato un caffè e un’altra canna. Si era seduto sulla poltrona e da lì aveva visto quelle tre cose.
Ma prima che le riconoscesse come tra loro collegate il telefono dovette squillare.
Era lei.
Aveva creduto di reggere quella situazione, la sua voce, le sue pause, il suo modo di dire Stè.
Ed invece crollò rovinosamente come le torri gemelle quel famoso 11 settembre.
Lei qualcosa dovette intuire, ma intelligentemente non domandò.
Si diedero appuntamento per il pomeriggio.

domenica 24 agosto 2008

Sinsemilla

Fece un sorso di Porto-tonic, poi gli disse: “Da dove cominciamo??”
Marco diede uno sguardo alla città senza mettere a fuoco nessun punto in particolare. Fece un visibile respiro d’addome, per ricaricarsi. Il succo a mela verde sul tavolo era di un colore scintillante, carico di energia, come fosse pronto a esplodere, pervadendo l’aria di sprizzante voglia di vivere.
Ne fece un ultimo sorso. “Da dove vuoi…”, rispose.
Kya si aspettava quella risposta, ma non ne aveva prevista la portata. Si trovò spiazzata, ma riuscì a cavarsela: “A Valencia non c’è l’oceano. Affaccia sul Mediterraneo”.
Le sembrava aver detto la cosa che più poteva introdurre l’argomento senza creare eccessivi disagi. Voleva rompere il ghiaccio. Così, semplicemente. Ma lunghi secondi di silenzio arrivarono, Marco distolse nuovamente lo sguardo per dirigerlo lontano. Sembrava volesse ricordare qualcosa, strizzò leggermente gli occhi.
“Dove trovare l’energia per un atto privo di contropartita? L’energia deve venire da un altrove. E però, occorre innanzitutto uno strappo, un qualcosa di disperato, occorre inanzitutto che il vuoto si crei.” Marco concluse quella frase ponendo l’accento sulla parola vuoto. Poi si girò verso di lei: “è uno stralcio da La casa del sonno; curioso come la lettera fosse conservata proprio a quella pagina!”
Kya era sbalordita. Quella frase sembrava essere stata scritta su misura per Luisa o meglio coincideva con l’analisi che Kya faceva della sua situazione. Eppure sapeva che lo stesso valeva per Marco. Quella frase era come tristemente universale, capace di prendere entrambi per la mano, ognuno rinchiuso nel proprio mondo di problemi, pensieri, rivelazioni, per accompagnarli su un terreno di condivisione. Andava riconosciuto il vuoto, andava combattuto. O viceversa quel famoso atto privo di contropartita doveva essere finalizzato al bene.
Ripensò a Luisa e riconobbe che c’era ancora molta strada da fare.
Voleva fumare. Prese dalla borsa due bustine trasparenti piene d’erba, una più scura dell’altra. Le annusò entrambe e poi ne diede una a Marco: “Silver Haze. È l’ultima, poi dovrai aspettare il prossimo raccolto.” Poi prese a fare una canna dall’altra bustina.
La preparò, l’accese e ordinò un altro Porto-tonic. Poi, diretta come l’alta velocità sulla tratta Parigi-Amsterdam disse con tono deciso: “Qual è il tuo vuoto?”
Gli indigeni dell’America latina lottavano e cacciavano con archi e cerbottane: ben poca cosa per sconfiggere animali selvatici o nemici. Studiarono il loro territorio con la sua fitta vegetazione e scoprirono che lavorando in proporzioni differenti cortecce di alberi della zona potevano ottenere un veleno potentissimo: il curaro.
La domanda di Kya era come un dose di curaro iniettata nel torrente circolatorio all’improvviso.
La muscolatura si rilassava, diveniva pesante, incapace di articolare un qualunque segmento corporeo, il respiro si faceva lento, le palpebre si abbassavano, lasciando due piccole fessure per la luce, per mantenere contatto col boia, con chi quella dose aveva somministrato.
Nonostante ciò Kya meritava la sua amicizia per quello: era abituata alla sincerità. Ci andava giù pesante con la sincerità, ferendoti o imbarazzandoti tanto da voler scomparire dalla faccia della terra. Ma era quanto di meglio uno poteva augurarsi da un rapporto.
Marco non era ancora pronto a rispondere. Allora deviò. L’alta velocità fece sosta a Rotterdam, a mezz’ora dalla capitale.
“L’Oceano è un concetto, non l’ho usato nel senso geografico del termine.”
Kya era abituata alle pause intercalate tra le domande che poneva e le risposte che otteneva. Erano pause verbali, in cui si continuava a discutere d’altro, di un altro non tanto dissimile dal discorso centrale, in qualche modo ad esso connesso. Kya lo sapeva e lasciò fare.
“Cosa è per te l’oceano?”

mercoledì 4 giugno 2008

Grey Berry

Con un clic la vocina si acquietò.
Aveva cercato di distrarsi quella sera. Ad un concerto per ballare, saltare, cantare: che l’alccol facesse quello per cui era stato comprato.
Distrarsi. Mettere un silenziatore alla vocina.
Una pausa al vortice interno che la tormentava e la corrodeva e la sfiniva.
Musica ad alto volume.
Per un po’ ci era riuscita. Ma tutto svanì.
Esistono le storie a lieto fine nella realtà?
O dobbiamo accontentarci della scorpacciata di favole dell’infanzia?
Le bastò rimettersi in auto per tornare verso casa. In un vicolo la spazzatura era stata riversata per strada ed ora era in fiamme. Un fumo bianco e denso risaliva tra mille grossi rivoli verso l’alto, impregnado un’aria di suo fetida.
Chiuse per prima cosa il finestrino, poi risalì il vicolo a retromarcia.
Di lì non si poteva passare! il piave asfaltato, ricolmo d’immondizia, moromorava.
Dovette trovare una strada alternativa e l’unica possibilità le era offerta da una parallela. Avrebbe dovuto percorrerla contro il senso di marcia. Uscì da quel girone dell’inferno e salì di grado. Altro giro, altra corsa. La cosa si faceva più interessante: slalom tra barricate fatte con immondizia.
Tutto il nostro rifiuto, quello che neghiamo, che scartiamo, l’eccesso, il brutto di cui disfarsi, l’osso della carne, la lettera strappata, la bottiglia vuota, ma piena di rimorsi, il preservativo usato in un amplesso rubato, l’assorbente colmo di mestruo: tutto lì, in bella mostra, il sottosuolo che ce lo sputa innanzi perché ci resti impresso.
Le si inumidirono gli occhi. Non lo sopportava. Non riusciva a reggere quello scempio. La sua città: Napoli. Ma dentro di sé il vortice non sembrava voler terminare. Una stretta allo stomaco. Il suo passato e l’oggi, il suo presente, tutto insieme condensato in un’immagine, in una sensazione, in un rifuto, quello innanzi a lei, quello dentro di lei.
Quello fu il simbolo.
Il resto venne da sé: Teresa torno a casa avvilita, sconfitta, triste e consapevole del fatto che lei, a livello personale, non avrebbe potuto muovere un passo per risolvere quella situazione. I media assurgevano a professori emeriti invitando i partenopei alla raccolta differenziata. Teresa in questa strategia non vedeva alcuna utilità a breve termine, nessuna efficacia per risolvere l’acuzie. Il problema era così grosso e di difficile gestione da richiedere tempo, molto tempo. E lei quel tempo non l’avrebbe concesso a nessuno.
Piuttosto Teresa voleva differenziarsi. Modificare la propria esistenza, smarcandola da quella delle persone che non avevano il coraggio di mettersi in gioco, svincolarsi dalle comodità routinarie dei rapporti, dal soldo facile, dall’auto di papà, dal piatto a tavola e le lenzuola cambiate. Voleva allontanarsi da quella città che ormai non la stimolava più.
Rincasò, si preparò una canna di Grey Berry, erba bastarda da Bubblegum e Blueberry, e accese il computer.
ryanair.com
selezionare aeroporto di partenza: Roma Ciampino
selezionare aeroporto di arrivo: Porto
Quando?
Cliccò sulla freccia che faceva scorrere i mesi e i giorni, cercando il volo più economico possibile. Era quello il criterio che la stava guidando, nessun altro pensiero. Trovò un volo a 9 euro e novantanove. Poteva andare. Con le tasse avrebbe speso sui 50 euro.
Sola andata?
Sì.
Eseguì l’operazione: volo FR 185 del 24 luglio Roma (CIA) - Porto (OPO) ore 17.46.
Con un clic la vocina si acquietò.
Qualcuno avrebbe potuto criticarla, sostenendo che era lei in realtà a fuggire, era lei in realtà quella non coraggiosa, quella che scappava, rinunciando a restare e a lottare perché la sua città tornasse alla normalità. Era lei che scappando faceva la morte della propria città.
Forse quel qualcuno aveva ragione, ma Teresa aveva individuato un percorso. Doveva intraprenderlo, pena la sua di morte. Quel qualcuno per adesso poteva andare al diavolo. Lasciò la canna spegnersi quando ne aveva fumato circa metà e andò a coricarsi, libera dalla vocina.


martedì 6 maggio 2008

Crema di Marocco | tre

Sembrava che avessero chiarito, ma in realtà non era così. Da un paio di giorni, forse tre, non si vedevano (ognuno nelle proprie faccende affaccendato, ma quella era solo una scusa...) né si sentivano. Ognuno aspettava che fosse l’altro a muoversi, a fare un passo, a mostrare un’apertura, ad essere disposto ad aprire un dialogo.
Dià: attraverso; logos: discorso.
Attraverso il discorso. In altre parole confronto. Le parole come mezzo per muoversi dalle proprie posizioni, attraversarne di altre, perforare il muro di incomunicabilità che porta alla non condivisione e quindi alla solitudine.
Il parlare e l’ascoltare.
Due pesi, ognuno identico all’altro, identico a se stesso, posti su due piatti di una bilancia il cui l’ago, in questo caso, risulta perfettamente perpendicolare alla superficie d’appoggio puntando verso l’alto, guardando lo zenit sopra la nostra testa, il punto più alto, meta ultima del percorso comunicativo, lido che una volta raggiunto regala l’evoluzione del proprio pensiero.
Il parlare e l’ascoltare nella stessa misura. Con la stessa energia. Con lo stesso peso.
Altrimenti l’equilibrio si perde e l’ago della bilancia punta altrove, verso mete più improbabili, seguendo percorsi come poco illuminati e illuminanti.
Ma per poterlo fare bisogna essere in due.
Davide si domandò quanto fosse utile ammorbidire il suo approccio, quanto Teresa fosse disposta a mettersi a nudo, quanto fossero capaci, entrambi, di discutere-attraverso, mettendo da parte l’orgoglio, la rivalsa, la voglia di avere ragione…
Si preparò una canna. Voleva alleggerire la testa, pesante come una coperta di lana doppia imbibita d’acqua piovana. Prese la Crema di Marocco e cominciò a lavorarne una parte grande quanto il gommino posto su alcune matite da ufficio. Lo mischiò con del tabacco e arrotolò tutto in una cartina.
Esattamente 5 tiri.
5 tiri e si decise a chiamarla. Aveva bisogno di sentirla. Aveva bisogno di capire come stava, cosa le frullava per la testa, nonostante una parte di sé, quella orgogliosa, quella stupida e virile, tirasse le redini di questa decisione.
Scorse la rubrica del suo maledetto cellulare e selezionò: Teresa.
Rispose con una voce tra il raffreddato e il triste.
“Pronto…”
“Ciao… come stai?”
Teresa mugugnò, poi disse qualcosa di incomprensibile.
Dopo fu un lungo silenzio.
Davide continuava a fumare, sperando che la Crema di Marocco calmasse i battiti del suo cuore che invece non ne voleva sapere nulla di rilassarsi; nel frattempo cercava di avviare un discorso. Più che altro faceva domande di ordine generale e Teresa rispondeva a monosillabi, probabilmente con la testa altrove.
Ufficialmente non si sentiva bene. Forse era il cielo cupo che faceva pandan col suo cuore, grigio come la cenere, scuro come l’oceano notturno di Porto.
Era sempre stata metereopatica, ma quella volta di più…
La canna non era neanche finita che Davide capì che quella telefonata era stata inutile.
Inutile per loro. Teresa lontanissima, nel corpo e nella mente. Loro due distanti.
L’ago della bilancia quasi parallelo alla superficie d’appoggio.
Utile per lui, perché quell’ago gli si era virtualmente conficcato nel cuore.
Stava iniziando a capire.
Potrei aver bisogno di tempo non era una tautologia.
Non era una minaccia anche se ad orecchi poco esperti poteva sembrarlo.
Era una presa di posizione.
Era un addio.
O quanto meno un arrivederci a data da destinarsi.


sabato 26 aprile 2008

Ricordi di Kashmiri | 7 secondi dopo...

Neve in basso. Il cielo scuro in alto. E poi alberi come abbracciati tra loro… Fitti e numerosi lasciavano nascosto tra loro uno spazio circolare. Nella penombra. La luna era lontana e la luce che vi arrivava era regalata di rimbalzo dal cielo esattamente al di sopra di quella pausa nel manto verde che era visibile dall’alto. Ma la luce come riflettendosi nel cielo scuro della notte, gli strappava colore, lo alleggeriva del suo profondo blu, disperdendolo tutt’intorno. Il crepuscolo in quello spazio era quindi blu. Finanche la neva sembrava contaminata, risultandone un cobalto calmo e rilassante alla vista.
Sulla neve due samurai lottavano.
Il primo ebbe la meglio esattamente per 7 secondi.
Tornò a casa e la porta del bagno era aperta. Notò questo dettaglio con la coda dell’occhio, mentre entrava nella sua camera da letto. V’era una innaturale semioscurità: la notte era infastidita dalle luci artificiali che provenendo dall’esterno disgregavano il buio pesto che nessuno forse conosce.
La coscienza di Luca si era imposta, obbligando il suo organismo ad un flusso di ricordi vividi.
La pressione sanguigna si alza, il cuore pompa in leggera tachicardia, la sostanza reticolare si attiva, scarica ad una maggiore frequenza chiamando in gioco il sistema limbico, roccaforte delle emozioni. Una amara tristezza si impadronì di lui. Ma poi la sua ragione placò il suo animo.
Il secondo samurai passò al contrattacco.
Schizzi di sangue rosso cupo macchiavano la neve blu cobalto.
Quando interagiamo con il mondo esterno applichiamo un filtro agli imput che ci stimolano. Raccogliamo il cuore dell’informazione, di quello che accade, di quello che stiamo guardando e ascoltando. Tralasciando i dettagli. Solo una visione preventivamente indirizzata verso la memorizzazione dei particolari, ci rende capaci di ritenere queste informazioni altrimenti considerate superflue. Ma questo succede quando la scena che ci si pone dinanzi è qualcosa di nuovo, un’immagine da scoprire, un’azione da interpretare. Al contrario quando interagiamo con qualcosa di già conosciuto, posto dinanzi ai nostri occhi quotidianamente, è il dettaglio fuori posto, il particolare che differisce, l’anomalia a colpirci, a rubare il nostro sguardo e la nostra attenzione.
Era un dettaglio: la porta del bagno aperta. Ma bastò.
La sua ragione prese il sopravvento e Luca iniziò a pensare a come la visione fosse uno strumento non rigido, non fisso, ma modulabile. E quindi anche non preciso. Ne aveva avuto dimostrazione durante la lezione con il suo professore. Il punto cieco. Ma ora anche questo… e per lui che voleva fare il fotografo, tutte queste considerazioni divenivano questioni di primaria importanza. In che modo la fotografia poteva sostituirsi alla visione? L’obiettivo era la naturale appendice del suo occhio, ma poi, a foto stampata, era un nuovo occhio a filtrare le informazioni, a scegliere quali dettagli conservare nella memoria… era un cane che si mordeva la coda…
Triste e con la testa pesante Luca si appoggiò sul letto: voleva fumarsi una canna.
Ma quel dettaglio lo paralizzò.
Quel dettaglio si impossessò di lui.
Quel dettaglio lo dominò per l’intera notte.


giovedì 24 aprile 2008

Ricordi di Kashmiri

Tornò a casa e la porta del bagno era aperta. Notò questo dettaglio con la coda dell’occhio, mentre entrava nella sua camera da letto. V’era una innaturale semioscurità: la notte era infastidita dalle luci artificiali che provenendo dall’esterno disgregavano il buio pesto che nessuno forse conosce.
Era un dettaglio: la porta del bagno aperta. Ma bastò.
Un flusso di coscienza inarrestabile percorse, centimetro per centimetro, la testa di Luca, fulmineo più della luce, ma al tempo stesso pesante come un’emicrania che lascia dietro di sè un dolore diffuso al corpo intero.
Gli venne in mente l’immagine del suo gatto: Morgana. Aveva 8 anni quando glielo regalarono dicendogli che era un femmina. Poi scoprì che in realtà era un maschio, ma Luca decise di non cambiargli il nome, nell’idea che una cosa continua ad essere se stessa anche se la si chiama in altro modo. E Morgana rimase.
Erano passati 17 anni fino ad allora e per chi ne ha 25, 17 rappresentano l’intera vita vissuta. Ogni episodio della propria vita era collocabile in una fase in cui lui, Morgana, c’era. Solo chi possiede animali e ci vive, ci gioca, ci parla, riesce a capire il rapporto che può crearsi.
Quando faceva buio il gatto dormiva nel bagno adagiato nel bidet adibito a cuccia per lui: era un bel po’ di tempo, quasi dall’inizio, che aveva preso questa abitudine e loro, Luca e i suoi, la avevano assecondata. Gli impedivano però di accedere alle camere da letto durante la notte. Per cui la porta del bagno quando si dormiva era tassativamente chiusa. E così per quasi 17 anni.
Luca usciva per poi rincasare agli inizi della notte quando ormai Morgana e i suoi già dormivano. E per lui era ormai scontato che quella porta fosse chiusa.
Morgana li aveva lasciati da poco, passando a miglior vita se ne esiste per loro o rincarnandosi in altra forma, vivendosi una delle molteplici vite di cui i gatti sono leggendari.
Morgana li aveva lasciati da poco, troppo poco perché Luca stesso o i suoi perdessero l’abitudine a chiudere quella porta. Negli ultimi giorni, gli venne facile ed automatico ricordare, l’aveva trovata comunque chiusa. Quella notte invece, la porta, quella dannata porta, era aperta.
E questo bastò perché nella mente di Luca riaffiorassero tante immagini: quella volta in cui nessuno dei due, né lui né il suo gatto, riuscivano a dormire. Luca si lamentava dentro, Morgana miagolava a squarciagola. E allora si fumarono una canna di Kashmiri o meglio lui la fumò mentre il gatto faceva le fusa raggomitolato nell’incavo della sua ascella, entrambi stesi sul letto e così si addormentarono.
Immagini su immagini riemergevano. Ricordi su ricordi.
Una amara tristezza si impadronì di lui. Morgana non c’era più.
La porta aperta faceva equazione con la morte.
Zero uguale zero.
E in quell’equazione agli zeri Luca poteva sostituire quello che realmente restava.
I ricordi. Il suo nome.
Pensò ad una delle sue ultime letture: Eco.
stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus
Ci restano solo i nomi.
Morgana…


mercoledì 23 aprile 2008

Rifman Malika | due

Le diede un foglio spiegazzato, passandole al contempo la canna.
Fece due tiri, guardò l’orizzonte e le venne in mente un viaggio. Quando andò a trovare Teresa.
Ordinò un porto-tonic: Porto bianco per 3/4, acqua tonica per il resto. Una fettina di limone. On the rocks.
“Devo raccontarti una cosa…” gli disse.
“Leggi prima” rispose Marco. “L’ho trovata in un libro: La casa del sonno.
Kya iniziò a leggere.

Notte prima degli esami (03.mar.08)

Il mio cuore dovrebbe battere. Ansia, coraggio, speranze, paure, proiezioni.
Una visione: qualcuno che corre. Fuga.
Un ubriaco intanto si infila dietro di me in ascensore. Incapace (ingenuo io che gli credetti) di citofonare a chi di dovere. Più probabilmente chi di dovere non voleva ascoltare, il citofono che russa in lontananza.
Arriva al 4°.
Ma prima mi bacia il cuore, mi ringrazia per averlo fatto entrare, per non essere stato diffidente, scappa dai miei occhi, continua a ringraziare.
Ma sa che lo osservo. Mentre l’ascensore arriva al piano. E allora non ne può più.
Alza la testa. E mi guarda. Occhi grigi come l’oceano di Valencia, in un sabato ventoso di novembre. Profondi e carichi come solo l’oceano.
Alza la testa. E guardandomi ringrazia nuovamente.
Io proseguo. Un altro uomo ha incrociato la mia strada.
Arrivo al mio piano. Esco dall’ascensore ma non rincaso: aspetto sul pianerottolo. L’uomo con gli occhi color oceano parla da solo, bussa ripetutamente ad una porta che resta chiusa, si agita, barcolla, aspetta, insiste, ma monta in lui la consapevolezza. Negato. Rifiuto. La notte scorrerà in altro modo. Il letto che cercavi resterà vuoto.
Ed io lo guardo. Ed io che penso.
All’ oceano di Valencia, che rumoroso accompagnava le lacrime.
E a lei che stanotte mi cerca. Da tempo. Da lontano.
Tutto stanotte, quella prima degli esami, concentrato in unica battuta.
Ed io non rispondo. La porta chiusa.
E lei ritenta. E lui prova coi pugni nudi sul legno.
Ed io non voglio. E chi di dovere neanche.
Il mio cuore dovrebbe battere. Forte e veloce. E invece è calmo, istericamente calmo. Chiuso in un silenzio che non voleva. Stordito. Come ibernato.
Il cellulare non squillerà più, anche lui resterà in silenzio, come l’uomo dagli occhi color oceano. Si addormenterà.
Domani si ricomincia. Con un esame.

Fece un sorso di porto-tonic, poi gli disse: “Da dove cominciamo??”

lunedì 21 aprile 2008

Big Bud

Tante mensole con libri letti o sfogliati, dalle pagine ingiallite o candide come la neve solo immaginata. Tanti frontespizi, affiancati in un disordine calmo. Diversi nelle misure, nei colori, negli stili, con titoli che da lontano non riescono a stimolare efficacemente la retina. Tra loro, quei libri, c’era un lettura adolescenziale: Stephen King. A volte ritornano.
Anche lei tornò. Tornò a tormentare: stridula, fastidiosa, insistente, nauseante ai visceri.
Chi sei?
E con essa pensieri, paure, riflessioni, considerazioni.
Sul futuro, quello futuribile, lontano dalle sognanti proiezioni d’infanzia in cui uno desidera conquistare le stelle, levitare nell’universo, osservare il mondo stringendolo virtualmente, grazie al dono della prospettiva, tra l’indice ed il pollice della propria mano.
Pensava al domani e nel frattempo fumava Big Bud. Il presente le scorreva sotto il naso e lei riusciva a percepirlo perfettamente. Non riusciva a dare una risposta a quella domanda. Non le era chiaro cosa voleva, cosa potesse desiderare e augurarsi. Si domandava domani dove voleva che fosse. Più volte il pensiero di Davide incrociò gli altri, a volte incastrandosi quasi sorprendentemente con le immagini che la parte nascosta di Teresa riusciva a visualizzare. In altre proiezioni invece, Davide semplicemente non era previsto. In maniera automatica. Per default. Come se il suo inconscio biologico cogliesse dei frame di vita futura, flash-forward di esperienze in cui altre figure dominavano la scena. Come se una Cassandra albergasse in lei.
Cassandra perché quelle visioni erano in contrasto con il suo presente e quindi interpretate come sogni, fantasie, ripudiate alla ragione, eretici pensieri a cui Teresa non credeva.
Non ancora…
Il tempo continuava a scorrere. La canna di Big Bud a estinguersi. La sua mente ad aprirsi.
Non era il suo rapporto con Davide ad essere in crisi. Era lei. Non era Davide, non il sentimento che continuava a provare per lui / ma poteva giurarlo !?!
Ripensò al messaggio che gli aveva mandato: so quello che voglio
Ci pensò. Un sorriso amaro le inarcò gli angoli della bocca.
Non era vero. Non lo sapeva affatto.
Eppure lui non c’entrava niente.
Era lei che aveva bisogno di mettersi in gioco, in discussione, doveva capire, doveva crescere…
Te-re-sa.
O-por-to.
Sei lettere, tre sillabe.
Doveva tornare in quel posto. Doveva tornare all’origine.