venerdì 22 giugno 2007

Giri di canna

Il cuore genera intorno a se un campo elettromagnetico potentissimo. Cinquemila volte superiore a quello creato dal cervello. Questo equivale a dire che le interazioni microscopiche che l’uomo tesse con l’ambiente intorno a sé, sono a suo appannaggio prioritario. Le onde di energia che si sprigionano da noi, prendono il via ed esplodono, percorrendo la loro parabola dinamica verso i referenti vicini, partendo dal cuore, piccolo organo di natura muscolare che ci assicura la vita biologica, ancorché non smetta di funzionare….
Se immaginiamo quindi l’ essere umano come cardio-centrico, è in quest’organo che noi tutti conserviamo non la memoria semantica o conoscitiva, ma quella emozionale che alle prime si associa: sensazioni, amore, odio, percezioni, sentimenti, segreti…
Ognuno di noi ha un segreto.
Lo conserva, appunto, in fondo al proprio cuore, inaccessibile alla conoscenza altrui, talvolta alla propria. Nessuna metodica analitica è capace di vagliarlo, incastrandolo in schemi di ricerca e risoluzione preformati e codificati, che negano l’eccedenza, il resto, ciò che avanza, quella quantità numerica infinitesimale e infinita che risulta il bug del problema. Vale a dire la virgola al posto sbagliato, l’errore concettuale, il bagaglio emotivo che accompagna le azioni, motivandole, e che razionalizzato perde di significato. Come dividere per zero.
Ognuno di noi ha un segreto.
Il problema è che l’approccio razionale e analitico che adottiamo, da inutile diventa distruttivo, autoalimenta il processo viziato di conoscenza. E di esclusione della altrui comprensione. Un muro issato attorno a sé, come quello che a Gerusalemme divide cristiani e musulmani, come quello che a Padova divide i tentati dalle puttane tentatrici. Ognuno da una parte del muro. Ognuno che crede di conoscere l’altro come se stesso.
Marco era fortemente convinto che il padre gli stesse nascondendo qualcosa. La sua consapevolezza bastava per entrambi. Li divideva. A prescindere dalla veridicità del pensiero.
Luisa nascondeva a tutti, o quasi, la propria malattia. Negandola anche a se stessa, se non in sprazzi temporali di disperata lucidità.
Stefano si era quasi convinto che la strada migliore da percorrere era uscire allo scoperto. Anche lui cadeva però in errore. E credeva di affrontare il problema razionalmente, cercando di non lasciarsi sovrastare dagli eventi, cercando, per quanto in suo possesso, di controllare le altrui reazioni centellinando le proprie parole. Nella stessa misura in cui si confessa un omicidio premeditato come un furto cleptomane.
Anche loro fumavno erba, cercando in essa il modo per affrontare correttamente il problema. Sperando che le porte della percezione possano essere abolite. Che ognuno venga allo scoperto. Che cadano le maschere, che il cerone duro applicato al viso si liquefaccia, lasciando intravedere carne rossa, carne viva, fatta di sangue e miseria.

venerdì 15 giugno 2007

Rifman Malika

Il Minnie Blu era un locale ricavato da un piccolo appartamento al piano terra di un edificio che, dall’altro lato, sembrava un suicida che si lascerà cadere nello strapiombo sottostante. Nascosto, senza alcuna visibilità su strada. Dovevi conoscerlo e dare un colpo alla porta per accedervi. Come si bussa ad un vicino di casa, come alla stanza affianco, come si usa in un ambiente intimo, per poche persone. Qualche piccola stanza, piccole cappelle laterali di un unico ambiente centrale, dove il bancone rappresentava il centro di gravità, luogo da cui tutto nasce e in cui tutto arriva. Bicchieri pieni che partono, andando in giro per i tavolini, tra le persone in piedi, tra quelle sedute comodamente sui divani, tra archi, porte, pareti… bicchieri vuoti che arrivano, tornando indietro, scegliendo percorsi alternativi, come il figliuol prodigo che ritrova la via di casa, come ognuno nel ruolo di chi l’ha preceduto…
Alcool andava giù e le persone tornavano al bancone diverse.
Alcool andava giù e il brusio di fondo aumentava. Parole spigolose incanalate in sterili discorsi inutili, ingigantiti per celare il silenzio che regna, cominciavano man mano a tessere una tela macchiata di verità…
Marco era in anticipo. Il sole si era fatto spazio tra i nuvoloni del mattino, regalando luce, calore e il motivo per preferire il giardino.
Nella stanza principale del Minnie Blu v’era anche l’accesso al giardino, un piccolo paradiso, incorniciato da alberi e piante e fiori e colori e profumi, che guardava sullo strapiombo, offrendo in dono alla vista uno spettacolare orizzonte.
La città che vive o che dorme.
Piccoli parallelepipedi disposti in maniera frastagliata si mostravano nella loro imponenza. Sicuri della loro immortalità relativa, in altro modo consapevoli che sarebbero sopravissuti alle persone, come indistruttibili, in nessuna maniera frammentabili, ognuno come la più piccola parte non più divisibile.
Ma all’interno di essi, invece, altri solidi, cubi o forse altro…
Scatole cinesi, la più grande che nasconde la più piccola. Visione a strati.
Edifici. Appartamenti. Stanze.
E all’interno le persone che ci vivono, anche queste sicure che non si possa andare più a fondo, che non si possa procedere a sfoltire gli strati e andare in profondità.
In realtà matrioske.
Il giardino, con la sua vista sulla città, forniva questa consapevolezza. E gli avventori in qualche modo lo percepivano. L’alcool aiutava. La mente si apriva.
Marco scelse un tavolino in posizione laterale, ordinò un succo al gusto di mela verde e iniziò a fare una canna.

venerdì 8 giugno 2007

Crema di Marocco | due

Quando pensiamo, lo facciamo nella nostra lingua madre. Utilizziamo parole. Accenniamo discorsi o discutiamo con noi stessi. Una specie di dialogo, domanda e risposta, ha luogo nella nostra mente, lì dove, paradossalmente, lo sdoppiamento è diagnosticato come patologico.
Non pensiamo per immagini o per suoni. Ragioniamo con l’uso delle parole: il pensabile e il dicibile coincidono.
Per una persona estrememente attaccata al linguaggio, alla ricerca del termine più appropriato, sempre intento a dare un nome corretto alle cose, che ancora conosce la differenza tra proiettile e proietto, per una persona che quindi distingue i concetti che sottendono le parole e le frasi e i discorsi, scoprire che questi nascondono delle insidie diventa devastante. Le crepe del linguaggio diventano ferite della mente, squarci nell’animo da cui sgorga ignoranza, avvizzimento, grigiume, morte.
Piove. Questa rappresenta una proposizione elementare: la sua veridicità è messa in discussione da ciò che accade realmente. Per continuare ad essera vera, la pioggia dovrebbe davvero bagnare l’asfalto. In altre parole presenta forte aderenza con la realtà. In altro caso è falsa.
Esistono poi quelle che Wittgeinstein chiama tautologie. Piove o non piove ne è un esempio. Qualsiasi cosa accada quella proposizione resta vera, mai smentibile, falsa in nessun caso. Per contro non esprime nulla: parole al vento, nessun concetto, nessun pensiero.
Il pensabile e il dicibile divergono.
Potrei avere bisogno di tempo. Era una tatutologia e Davide lo sapeva. In realtà Teresa non aveva espresso nulla, non gli aveva comunicato le sue intenzioni. Sembrava una frase buttata lì a roteare nello spazio vuoto creato dalle loro parole dure. Avevano discusso. Di nuovo. Più volte. Davide aveva acceso finalmente il telefonino e l’aveva chiamata. Doveva chiederle spiegazioni sul quel messaggio. E riproporle nuovamente le sue motivazioni.
Ma sembravano parlare due lingue differenti, ognuno intento a farsi capire dall’altro, a imporgli il proprio punto di vista, ad ancorarsi al proprio modo di interpretare le cose ed ad omologarsi a questo, ognuno pronto a aprire bocca, nessuno voleva ascoltare, nessuno voleva capire…
Per di più quella frase, in quanto tautologica in essere, obbligava lo sguardo su altri scenari possibili. Squarciava, alla mente, il quotidiano creatosi durante la loro relazione, lasciando libere vecchie pulsioni incatenate e generandone di nuove.
Pulsioni d’amore e d’odio. Di rivalsa. Di gelosia. Di riscatto. Di vita. Di morte.
Davide rimase dopo un po’ in silenzio.
Quella frase suonava come una minaccia.

lunedì 4 giugno 2007

Blue Buddha

La distanza tra i due era di circa 3 metri. Luca chiuse l’occhio destro e con il sinistro in posizione primaria, tutti i muscoli oculomotori a riposo, fissava il capo del suo professore che, immobile e in piedi, sembrava guardare l’orizzonte vedendo numeri e matrici all’interno delle cose. Poi ruotò lentamente il capo verso destra, l’immagine muta, come con una cinepresa che ruota lentamente sul suo asse.
Una risatina sommessa deflagrò nella sua testa. L’aveva trovato.
L’occhio è come una piccola sfera orientata nello spazio, in cui è possibile stabilire quale sia il davanti e quale il dietro, il sopra e il sotto. Tra gli strati che compongono la superficie posteriore c’è la retina, in tutta la sua estensione, fiera del compito cui è preposta. Anche questa ha però, un tallone d’Achille. Esiste un punto su di essa che non risponde agli stimoli luminosi. Il punto cieco. La macula nera. Il non vedere nel regno della visione, nell’impero dell’immagine, nel luogo in cui la vista diviene re dei sensi, silenziando tutti gli altri, primo e più importante strumento di conoscenza…
Ma Luca vedeva ora il suo professore decapitato: la sua testa era caduta nel punto cieco ed era scomparsa alla mente. Il cervello, dal canto suo, non ci sta, non riesce ad accettare questa inefficacia dell’organo periferico e fa da sé… riempie quel vuoto come meglio crede, usufruendo delle informazioni in suo possesso, secondo un processo detto di riempimento.
Non sa forse che dovrebbe completare quell’uomo in giacca che continua a spiegare e non l’ambiente intorno…
Riaprì l’occhio destro e l’acefalo smise di essere freak: la testa ricomparve…
Luca aveva avuto la dimostrazione di come la visione e la percezione dell’immagine fossero due cose molto simili, ma sostanzialmente differenti. Si alzò e uscì dall’aula. Ma se l’occhio ci trasmette dati sbagliati o quanto meno ambigui, quali sicurezze abbiamo circa le informazioni che conserviamo nel nostro cervello?
La risatina nel suo cervello diventa isterica, esplosa a sussulti, l’aria che torna di rimbalzo verso il basso, come bloccata in un ascensore impazzito. Il diaframma è in preda ad una contrazione paradossa, che si ripete a ritmo di metronomo. La risatina diviene singhiozzo. E con lui lacrime pesanti come dubbi.
Luca si allontanò per cercare un albero sotto la cui protezione potersi fumare un po’ d’erba avvolto da un confortevole silenzio. Blue-Buddha per pensare, ricordare e analizzare. Tutto quello che aveva visto, gli oggetti, le persone, gli eventi, se stesso, tutto andava messo in discussione, perché analizzato in prima istanza parzialmente ovvero con la falsa consapevolezza che tutto fosse accessibile quando visibile.
Blue-Buddha per pensare, ricordare e analizzare.
Questa volta ad occhi chiusi…