martedì 6 maggio 2008

Crema di Marocco | tre

Sembrava che avessero chiarito, ma in realtà non era così. Da un paio di giorni, forse tre, non si vedevano (ognuno nelle proprie faccende affaccendato, ma quella era solo una scusa...) né si sentivano. Ognuno aspettava che fosse l’altro a muoversi, a fare un passo, a mostrare un’apertura, ad essere disposto ad aprire un dialogo.
Dià: attraverso; logos: discorso.
Attraverso il discorso. In altre parole confronto. Le parole come mezzo per muoversi dalle proprie posizioni, attraversarne di altre, perforare il muro di incomunicabilità che porta alla non condivisione e quindi alla solitudine.
Il parlare e l’ascoltare.
Due pesi, ognuno identico all’altro, identico a se stesso, posti su due piatti di una bilancia il cui l’ago, in questo caso, risulta perfettamente perpendicolare alla superficie d’appoggio puntando verso l’alto, guardando lo zenit sopra la nostra testa, il punto più alto, meta ultima del percorso comunicativo, lido che una volta raggiunto regala l’evoluzione del proprio pensiero.
Il parlare e l’ascoltare nella stessa misura. Con la stessa energia. Con lo stesso peso.
Altrimenti l’equilibrio si perde e l’ago della bilancia punta altrove, verso mete più improbabili, seguendo percorsi come poco illuminati e illuminanti.
Ma per poterlo fare bisogna essere in due.
Davide si domandò quanto fosse utile ammorbidire il suo approccio, quanto Teresa fosse disposta a mettersi a nudo, quanto fossero capaci, entrambi, di discutere-attraverso, mettendo da parte l’orgoglio, la rivalsa, la voglia di avere ragione…
Si preparò una canna. Voleva alleggerire la testa, pesante come una coperta di lana doppia imbibita d’acqua piovana. Prese la Crema di Marocco e cominciò a lavorarne una parte grande quanto il gommino posto su alcune matite da ufficio. Lo mischiò con del tabacco e arrotolò tutto in una cartina.
Esattamente 5 tiri.
5 tiri e si decise a chiamarla. Aveva bisogno di sentirla. Aveva bisogno di capire come stava, cosa le frullava per la testa, nonostante una parte di sé, quella orgogliosa, quella stupida e virile, tirasse le redini di questa decisione.
Scorse la rubrica del suo maledetto cellulare e selezionò: Teresa.
Rispose con una voce tra il raffreddato e il triste.
“Pronto…”
“Ciao… come stai?”
Teresa mugugnò, poi disse qualcosa di incomprensibile.
Dopo fu un lungo silenzio.
Davide continuava a fumare, sperando che la Crema di Marocco calmasse i battiti del suo cuore che invece non ne voleva sapere nulla di rilassarsi; nel frattempo cercava di avviare un discorso. Più che altro faceva domande di ordine generale e Teresa rispondeva a monosillabi, probabilmente con la testa altrove.
Ufficialmente non si sentiva bene. Forse era il cielo cupo che faceva pandan col suo cuore, grigio come la cenere, scuro come l’oceano notturno di Porto.
Era sempre stata metereopatica, ma quella volta di più…
La canna non era neanche finita che Davide capì che quella telefonata era stata inutile.
Inutile per loro. Teresa lontanissima, nel corpo e nella mente. Loro due distanti.
L’ago della bilancia quasi parallelo alla superficie d’appoggio.
Utile per lui, perché quell’ago gli si era virtualmente conficcato nel cuore.
Stava iniziando a capire.
Potrei aver bisogno di tempo non era una tautologia.
Non era una minaccia anche se ad orecchi poco esperti poteva sembrarlo.
Era una presa di posizione.
Era un addio.
O quanto meno un arrivederci a data da destinarsi.