giovedì 28 agosto 2008

Postumi di Charas | lui

C’erano stati insieme qualche tempo prima, quando la andò a trovare durante il suo Erasmus, e lui non poteva mai immaginare che quel posto si sarebbe ripresentato nei loro discorsi a tre anni di distanza. Chissà per quale strano distruttivo motivo, alla fine della loro discussione, come spinto da un’impetuosa voglia di trovare delle risposte, scorse la casella dei messaggi nel suo telefonino.
Le persone conservano sul proprio cellulare messaggi di tempi andati, tracce di un passato che non ritornerà, ricordi digitali che spesso non vengono mai più consultati. La casella era ricolma dei suoi messaggi, d’amore e di odio, scritti nell’enfasi di un meraviglioso momento, sulla scia di un amplesso da trattenere il respiro, o scritti nel buio di una stanza, quando il singhiozzare era l’unico agire che produceva un suono, al di fuori del ticchettare delle dita sui tasti di un telefonino maledetto. Ne trovò uno di cui non aveva memoria. Le cose tornano. E noi non possiamo fare altro che prenderne coscienza.
8/12/2006: Mi accorgo che in realtà conosco poco delle persone che mi sono più vicine e questo mi rattrista, ma… fino a che punto è davvero possibile conoscere una persona? Non lo so, ma spero che con te non sia così...
Il suo cuore si spaccò a metà, le lacrime gli annebbiarono la vista. Avrebbe voluto rigirarle la domanda, in tono d’accusa. C’era una richiesta in quel messaggio, una speranza, una voglia di investire in un affetto, di sconfiggere la solitudine…
Fino a che punto è possibile conoscere una persona? Fino a che punto uno può dire di non essere solo? Quanto c’era di vero in quella richiesta, spero che con te non sia così, ora non poteva giurarlo più: erano soli definitivamente, lei l’aveva salutato, per ora… per sempre…
Davide pensò al senso profondo di quella domanda senza risposta, pensò a chi ne fosse il referente. C’erano tante cose che lei non sapeva. Probabilmente c’erano tante cose che neanche lui sapeva e questa consapevolezza, da tempo sottovalutata, ora gli straziava il cuore e apriva la sua mente a interrogativi a cui non era in grado di rispondere. Gli aveva inviato dei segnali? Quel messaggio stesso forse ne era uno? Era stato miope e non aveva capito il significato profondo che quelle parole racchiudevano? Non lo sapeva e non l’avrebbe mai saputo.
Teresa l’aveva salutato con una voce spezzata, in lacrime, afflitta dal dolore, di un dolore necessario, pronunciando un Ciao tanto semplice quanto carico di paura, di quella che uno prova quando fa un salto nel vuoto. Era l’unica cosa da fare: non quella giusta, non quella decisa razionalmente in un ventoso pomeriggio di novembre. Era un imperativo, dettato dallo stomaco, da una pesantezza a livello del diaframma che impedisce di respirare serenamente.
Ciao e quel che restava era una distanza infinita tra loro due, una distanza incolmabile, una distanza che neanche un aereo verso Porto poteva annullare.

mercoledì 27 agosto 2008

Caramello Royale | due

La finestra faceva da cornice: la luce aveva impregnato il cielo di un azzurro scintillante, un azzurro che aveva lottato a lungo prima di vincere il blu che per l’intera notte aveva contraddistinto in cielo rendendolo simile ad una lavagna su cui scrivere. O su cui cancellare.
Stefano era seduto in poltrona a fumare una sigaretta arricchita con Caramello Royale e da quella posizione riusciva a vedere in maniera distinta 3 cose: come tre impronte lasciate su un terriccio umido o sulla sabbia.
Ogni percorso lascia tracce alla nostre spalle.
Uno: il telefono che di lì a poco sarebbe squillato…
Due: la tromba, appoggiata su di un pouf sospinto da un suo uso distratto subito dietro al mobiletto su cui, quasi per dimenticanza, Stefano aveva poggiato il telefono.
Tre: la finestra-cornice, il cielo mattutino che aveva sconfitto quello cupo e denso della notte precedente, quando Stefano si era addormentato sul prato.
3 impronte che conducono ad una porta chiusa. Stefano si era preparato la sera prima a lasciarla così come l’aveva trovata, ma non sapeva ancora che, pur volendo resistere, non avrebbe potuto fare a meno di aprirla e di concedere agli altri la verità, di urlarla al mondo, un mondo che si concentrava in due persone, di pronunciarla con la propria bocca, in modo che anche lui se ne rendesse conto, in modo che anche lui prendesse coscienza che in realtà stava forzandosi, razionalizzando il suo malessere, senza riuscire a coglierne le radici più profonde per porvi fine.
La tromba era lì che inviava riflessi ramati alle pareti della stanza e ai suoi occhi, la tromba era lì a ricordagli che Stefano non suonava da un po’. La tromba era lì in rassegnata attesa, come una moglie che stesa nel letto, spalle al proprio compagno, piange sul cuscino perché da tempo non fanno l’amore, perché da tempo quel letto è matrimoniale solo nelle misure, perché da tempo anela il ritorno di un sentimento che non verrà più, sbiadito nella forma e nella sostanza, sbiadito ogni giorno un po’ di più.
Tre impronte, come tre evidenze in un delitto.
Si era da poco svegliato, leggermente stordito per la canna fumata sul prato, leggermente incriccato per l’umidità che durante la notte si era posata su di lui penetrando poco a poco nelle ossa. Si era da poco svegliato, con la testa non ancora in funzione, ma al minimo dell’attivazione possibile, si era preparato un caffè e un’altra canna. Si era seduto sulla poltrona e da lì aveva visto quelle tre cose.
Ma prima che le riconoscesse come tra loro collegate il telefono dovette squillare.
Era lei.
Aveva creduto di reggere quella situazione, la sua voce, le sue pause, il suo modo di dire Stè.
Ed invece crollò rovinosamente come le torri gemelle quel famoso 11 settembre.
Lei qualcosa dovette intuire, ma intelligentemente non domandò.
Si diedero appuntamento per il pomeriggio.

domenica 24 agosto 2008

Sinsemilla

Fece un sorso di Porto-tonic, poi gli disse: “Da dove cominciamo??”
Marco diede uno sguardo alla città senza mettere a fuoco nessun punto in particolare. Fece un visibile respiro d’addome, per ricaricarsi. Il succo a mela verde sul tavolo era di un colore scintillante, carico di energia, come fosse pronto a esplodere, pervadendo l’aria di sprizzante voglia di vivere.
Ne fece un ultimo sorso. “Da dove vuoi…”, rispose.
Kya si aspettava quella risposta, ma non ne aveva prevista la portata. Si trovò spiazzata, ma riuscì a cavarsela: “A Valencia non c’è l’oceano. Affaccia sul Mediterraneo”.
Le sembrava aver detto la cosa che più poteva introdurre l’argomento senza creare eccessivi disagi. Voleva rompere il ghiaccio. Così, semplicemente. Ma lunghi secondi di silenzio arrivarono, Marco distolse nuovamente lo sguardo per dirigerlo lontano. Sembrava volesse ricordare qualcosa, strizzò leggermente gli occhi.
“Dove trovare l’energia per un atto privo di contropartita? L’energia deve venire da un altrove. E però, occorre innanzitutto uno strappo, un qualcosa di disperato, occorre inanzitutto che il vuoto si crei.” Marco concluse quella frase ponendo l’accento sulla parola vuoto. Poi si girò verso di lei: “è uno stralcio da La casa del sonno; curioso come la lettera fosse conservata proprio a quella pagina!”
Kya era sbalordita. Quella frase sembrava essere stata scritta su misura per Luisa o meglio coincideva con l’analisi che Kya faceva della sua situazione. Eppure sapeva che lo stesso valeva per Marco. Quella frase era come tristemente universale, capace di prendere entrambi per la mano, ognuno rinchiuso nel proprio mondo di problemi, pensieri, rivelazioni, per accompagnarli su un terreno di condivisione. Andava riconosciuto il vuoto, andava combattuto. O viceversa quel famoso atto privo di contropartita doveva essere finalizzato al bene.
Ripensò a Luisa e riconobbe che c’era ancora molta strada da fare.
Voleva fumare. Prese dalla borsa due bustine trasparenti piene d’erba, una più scura dell’altra. Le annusò entrambe e poi ne diede una a Marco: “Silver Haze. È l’ultima, poi dovrai aspettare il prossimo raccolto.” Poi prese a fare una canna dall’altra bustina.
La preparò, l’accese e ordinò un altro Porto-tonic. Poi, diretta come l’alta velocità sulla tratta Parigi-Amsterdam disse con tono deciso: “Qual è il tuo vuoto?”
Gli indigeni dell’America latina lottavano e cacciavano con archi e cerbottane: ben poca cosa per sconfiggere animali selvatici o nemici. Studiarono il loro territorio con la sua fitta vegetazione e scoprirono che lavorando in proporzioni differenti cortecce di alberi della zona potevano ottenere un veleno potentissimo: il curaro.
La domanda di Kya era come un dose di curaro iniettata nel torrente circolatorio all’improvviso.
La muscolatura si rilassava, diveniva pesante, incapace di articolare un qualunque segmento corporeo, il respiro si faceva lento, le palpebre si abbassavano, lasciando due piccole fessure per la luce, per mantenere contatto col boia, con chi quella dose aveva somministrato.
Nonostante ciò Kya meritava la sua amicizia per quello: era abituata alla sincerità. Ci andava giù pesante con la sincerità, ferendoti o imbarazzandoti tanto da voler scomparire dalla faccia della terra. Ma era quanto di meglio uno poteva augurarsi da un rapporto.
Marco non era ancora pronto a rispondere. Allora deviò. L’alta velocità fece sosta a Rotterdam, a mezz’ora dalla capitale.
“L’Oceano è un concetto, non l’ho usato nel senso geografico del termine.”
Kya era abituata alle pause intercalate tra le domande che poneva e le risposte che otteneva. Erano pause verbali, in cui si continuava a discutere d’altro, di un altro non tanto dissimile dal discorso centrale, in qualche modo ad esso connesso. Kya lo sapeva e lasciò fare.
“Cosa è per te l’oceano?”