giovedì 29 ottobre 2009

Postumi di Black Bombay | due

Si erano date appuntamento via sms.
A volte accadono cose che sfibrano lo scorrere del tempo e il tuo orientamento in esso. Passano ore senza che nulla accada: anche la luce che entra dalla finestra cambia, assecondando il moto del sole che scompare dietro i palazzi spenti, ma sembra non farlo. Lo sguardo fisso nel vuoto e la mente gelificata senza che nessuno stimolo sia capace di smuovere quell’ammasso ectoplasmico che pare non avere vita dentro di esso. Immaginando una linea con trattini trasversali che rappresentano l’una dopo l’altra le ore che incessantemente si susseguono, e sforzandosi di concentrarsi nell’intervallo compreso tra due trattini, potremmo visualizzarne altri 59, ognuno per un minuto. Ma a volte lo spazio tra due trattini si dilata e dentro di essi, tra i seondi, tra l’uno e l’uno più uno, in quello spazio infinitesimale, perché lo visualizziamo geometricamente, in quel piccolo segmento della linea che abbiamo immaginato qualche secondo fa e che man mano sta dilatandosi, si pùo sprofondare. È come osservare da un’altezza spropositata una lumaca che cammina. Ogni millimetrico spostamento non sarebbe percettibile. Sembrerebbe semplicemente tutto fermo.
Cristallizzato.
E poi succede che in secondo mille pensieri arrivino e mille paure e mille sensazioni.
In questo caso è tutto concentrato. I trattini si avvicinano, quasi si sfiorano. Si condensano. E sembra che stia succedendo tutto insieme.
Tutto a noi.
Tutto nel medesimo istante o giu di lì.
In 4 secondi, se sono quelli giusti, può cadere un impero.
Si erano date appuntamento via sms. Nonostante ciò, quando Kya bussò alla sua porta, le sembrò di sprofondare nel panico: credeva di avere ancora molto tempo per sé, sola, per rimettersi in piedi e a rimettere in ordine. Perché tutto avesse una certa parvenza di normalità. Perché tutto ciò che si fosse trovato fuori posto avrebbe potuto ssere liquidato con una banale scusa. Il frigo vuoto. Il buio della sua stanza.
Avrebbe desiderato più tempo. Per essere pronta a fingere. Almeno finchè avesse voluto.
E invece il nemico è alle porte. L’ultima battaglia alle porte dell’impero, per difenderlo, per evitare che cada. Per un attimo pensò di non aprire: battere in ritirata. Ma l’attimo dopo una lucidità improvvisa le fece vedere il campo dall’alto, con le sue insidie e i suoi punti strategici.
Era curioso che avesse pensato a Kya come al nemico. Era curioso come le opinioni sulle persone potessero cambiare se considerate in contesti differenti o semplicemente in momenti storici diversi.
Kya non era un nemico: era l’alleato giunto in soccorso.
Si fece forza sulle braccia. Strinse con le mani i bordi del water e spingendo sulle braccia si rialzò con uno sforzo immane. Conservò le ultime energie per tirare lo sciaquone. E per andare ad aprire.
Era parecchio che non si vedevano, ma non abbastanza. L’espressione di Kya, quando vide il volto di Luisa, e il suo corpo smunto, non appena la porta si dischiuse fu chiara. Gli occhi le si sgranarono lentamente, con la stesa velocità con cui gli angoli della bocca si abbassarono in una smorfia di spavento. E di dolore.
“Luisa…” riuscì a dire a malapena.
Ma lei le aveva già voltato le spalle incamminandosi verso il corridoio in ombra.
A Kya sembrò che avesse iniziato a piangere.


domenica 25 ottobre 2009

Postumi di Black Bombay

Ormai ci aveva fatto l'abitudine.
Era diventato come lavarsi i denti dopo pranzo o mettere su il caffè appena sveglia. Automatismi.
Muoviamo azioni per gran parte della nostra giornata per schemi precostituiti e preconfezionati. Questo ci fa risparmiare tempo e ci permette di incasellare l'una dopo l'altra tutte le cose, appuntamenti, telefonate, aperitivi, pilates e letture distratte, che ci è dato vivere o che ci è imposto affrontare. Centrifugare tutta la nostra giornata, per iniziare dalla cena o dal corso di cucina thai, ci renderebbe meno produttivi: e così la nostre giornate scorrono su canovacci delineati. Ci si sveglia, si mette il caffè sul fuoco e mentre sale si fa pipì. E poi la doccia e nel mentre l'acqua si fa calda prepariamo sul letto i vestiti da indossare. E poi usciamo e mentre si mangia qualcosa, un croissant in una mano e i soldi nell'altra, con la borsa soto il braccio, compriamo il giornale e il biglietto della metro e mentre e mentre e mentre.... Tristemente automatismi.
Alcuni pazienti epilettici mostrano questi automatismi mentre hanno una crisi: vale a dire che il loro cervello è come se si spegnesse, c'è perdita di coscienza, dopo non ricorderanno nulla di tutto quello che gli sta accedendo, non ricorderanno chi avevano davanti e cosa gli stavano raccontando, semplicemente un buco nella linea dei ricordi, eppure in quel momento continuano a muoversi, come fantasmi. Conservano il movimento che era posto in essere: masticano o camminano o continuano a fare esattamente quello che stavano facendo prima che un pool di neuroni impazziti scaricasse segnali in modo anomalo, generando la crisi.
Automatismi.
Ormai ci aveva fatto l'abitudine.
Era diventato come lavarsi i denti dopo pranzo o mettere su il caffè appena sveglia.
Non era neanche più in grado di riconoscere i segnali di pericolo che le si mostravano. Aveva silenziato il carattere premonitore che in quanto tale avrebbe dovuto dirle che qualcosa di negativo stava per accadere. L'acido è un sapore cattivo. E questo perché non ci venga in mente di vomitare ogni volta che ci manca il dessert.
Il vomito è un riflesso biologico di fondamentale importanza, ma c'è un prezzo da pagare: l'assaporare il contenuto del nostro stomaco. La memoria gustativa apprende in maniera istantanea e conserva quel sapore e lo ripropone, come idea, come monito...
ma Luisa ormai ci aveva fatto l'abitudine e a quel rigurgito acido, tagliente, sottile, che feriva la mucosa del suo esofago e sfibrava i tessuti del suo essere, non faceva neanche più caso. Si alzò dal letto, ancora intontita, ancora sotto effetto Black Bombay e si diresse in cucina: aveva ormai imparato a convivere col suo problema e sapeva quando accettare un invito a cena, quando declinare, quando restare a casa e quando prepararsi un infuso.
Mise l'infusore sul fuoco e nel mentre andò a svuotare il suo contenuto gastrico in bagno, con completo distacco, come se fosse assente, come senza coscienza, come se la sua lingua fosse ormai insensibile all'acido...

sabato 25 luglio 2009

Sinsemilla | tre

Erano rimasti in silenzio per un bel po’. Ognuno con la mente che scivolava lungo i nastri del pensiero, veloce come non mai. E il silenzio tra loro. Un silenzio riflessivo. Nonostante la comunicazione, nella più immediata delle possibilità, passa attraverso la parola, Marco e Kya stavano paradossalmente mettendosi a nudo. Non parlavano, le loro bocche socchiuse senza emettere alcun suono, parola o lamento: ma si stavano raccontando.
Esistono diversi tipi di silenzio: di sottomissione, di vergogna, di comunicazione non verbale, di paura, di delusione o di gioia e tanti altri ancora. Come gli eschimesi hanno numerose parole per definire il bianco, un colore che a noi pare grossomodo sempre uguale, ne colgono le infinite sfumature, gli infiniti sensi e significati, così valeva anche per il silenzio. Kya stava pensando proprio alla differenza che esisteva tra il silenzio che aveva dominato la scena tra lei e Marco per qualche minuto e quello che invece divideva da molti giorni ormai Marco dal destinatario segreto di quella lettera aperta. Sapeva che stava struggendosi, consumandosi nel non poter condividere il suo quotidiano con chi voleva, sentendosi sconfitto laddove una battaglia non esisteva.
“Da quanto tempo non la senti?” fece lei.
Marco chiuse gli occhi e così si voltò in direzione del sole, guardando con le palpebre abbassate quel tondo luminoso che sembrava essere arancione.
“Da troppo” rispose “è successo di tutto nella mia vita e lei non lo sa ed io mi sento perso: le decisioni che ho preso, le scelte fatte, le cose a cui ho rinunciato: è come giocare una partita di rugby indossando improvvisamente un’altra casacca. Credevo tante cose e poi… svanite nel nulla, avevo riposto fiducia e speranze nel mio futuro, avevo creduto che potesse andare in una determinata direzione e poi, all’improvviso trovarsi davanti ad una porta chiusa: devi cambiare strada, eppure non hai la minima idea di dove ti trovi e dov’è che vuoi arrivare”.
Gli occhi di Marco erano ancora chiusi, ma una lacrima si fece strada tra la rima palpebrale per scorrere via lungo la sua guancia. Kya si trovò in difficoltà per la prima volta e non perché Marco stava piangendo, ma perché era difficile seguire il suo discorso: in meno di trenta parole stava esprimendo tutta la sua crisi.
Era come se avesse davanti ai suoi occhi un nodo ingarbugliato da milioni di nastri, fili e corde e non sapeva da dove cominciare: ne prese uno a caso, o forse no, e tirò decisa, ma con delicatezza. Prima però fece un tiro di Sinsemilla.
“Le strade a volte si separano, corrono parallele, a volta si incrociano nuovamente per poi dividersi definitivamente o per diventarne una sola. Nessuno può dirlo. Ma cos’è che ti fa paura? Percorrere un pezzo di strada da solo?”
“No! Il problema è che non so dove andare, il problema è che insieme a lei credevo di poter andare ovunque…”
“E ora…”
Lui la interruppe: “E ora ho fatto delle scelte, forse sto scappando, non so quel che è giusto… e neanche mi preoccupa… non è questo che mi interessa.”
“E tutto il resto? Il tuo lavoro, le tue passioni, i tuoi sogni…”
Marco sorrise amaramente: “Nei miei sogni lei era protagonista e nella realtà di oggi lei non c’è.”
Marco stava consumandosi come la canna di Sinsemilla. Provava un dolore mai percepito. Un dolore dell’anima. La distanza, l’assenza, il silenzio: come era possibile tutto ciò? Come poteva capitare una cosa del genere? Erano le domande che Marco si poneva al buio, in silenzio, senza riuscire a darsi una risposta. Ma quelle sarebbero arrivate, al momento giusto, non ora, perché ora, anche se lui non riusciva a capirlo ancora, non era il tempo delle domande: era il momento di stare in silenzio. Era il momento di sentirsi.
Una fase si era chiusa e lui doveva aver solo il giusto tempo per elaborare il lutto.
Una nuova fase si apriva e lui doveva aver il tempo di entrarvi completamente, senza rinunce.
Si era al giro di boa, il vento cambiava direzione e lui doveva correggere il tiro.
Da solo e in silenzio.
Kya capì e non parlò più: in silenzio gli strinse la mano. In silenzio gli passò gli ultimi due tiri di Sinsemilla.

giovedì 23 luglio 2009

Libanese

Senza poter muovere un braccio. O la gamba. O un dito del piede. Senza poter alzare la testa dal letto o girarla per vedere chi è entrato. Unico movimento consentito: aprire e chiudere le palpebre. Se lo si vuole considerare un movimento, è possible anche muovere verticalmene gli occhi, ma non lateralmente. Senza poter parlare. Senza poter mangiare. Senza poter espandere attivamente la gabbia toracica. Pur riuscendo a capire tutto quello che sta succedendo. Locked-in syndrome. Rinchiusi nel proprio corpo. Una mente, due occhi che guardano sempre il soffitto o il passante di turno che mette il suo faccione davanti al tuo, chiedendoti: “come va oggi?” “Una merda” diresti se potessi parlare. Però lo pensi. E pensi a tanto altro. Solo quello ti è possible fare. I più intelligenti o i medici ti pongono domande a cui puoi rispondere sì (chiudendo gli occhi una sola volta) o no (ammiccando due volte). Ma nessuno sa cosa significa. Le vie del dolore sono integre e allora quello lo senti. Ovunque. Diventa tuo compagno di viaggio. Ti accompagna verso l’unica meta possible. Alla maniera in cui quei due aspettavano Godot. E lui non arriva. Non si sa chi sia. E la morte non arriva. Non si sa chi sia. E trascorrono i giorni o le ore. Tu pensi. Dormi. Ti svegli e non sai quand'è. Che è ora. Che verrà a prenderti. Pensante, ma paralizzata. La mente talvolta fa brutti scherzi, si annebbia, crea illusioni. La valigia era ancora vuota. Fece un tiro da una canna di Libanese. Il migliore in circolazione. Lo chiamavano El Kolch dello Zahret. Chissà cosa voleva dire. Anche la canna si era inumidita, bagnata dalle lacrime che scendevano giù, come pioggia. Stava impazzendo. In un vortice di pensieri, paure, ansie, cose nuove da voler scoprire, emozioni, voglia di altro, voglia di abbandonare quel passato e questo presente ormai vecchio. In un vortice. Sbagliato. Il vortice dentro di te. E il corpo immobile. Paralizzato. Una sensazione come di vertigine. Tutto che rotea. Dentro. Locked-in. Fuori nessun gesto, nessuna azione. Essere fermi e sentirlo. Capire che il colpo è stato sparato, tutti sono partiti già e tu sei ferma ancora alla griglia di partenza. L’ inizio di un nuovo percorso. Inizia il viaggio. Teresa poggiò la canna nel posacenere e si alzò. Prese un pacchetto dalla scrivania e lo lanciò nella valigia. La prima pietra era stata posta. Il viaggio era davvero iniziato. Finalmente. Si sedette davanti al pc. Hotmail.com. Scrisse una mail. Il giorno dopo sarebbe partita e nessuno dei suoi amici portoghesi lo sapeva ancora. Scrisse a Diana. Fu sintetica: amanha chego no porto. Arrivo domani. Cliccò sul tasto INVIA e andò a stendersi di fianco alla valigia, non più vuota. C’era una sola cosa dentro. Per di più vi era stata lanciata. Era stato necessario un moto di violenza per innescare quel processo. Era stato necessario uno stimolo efficace. Non più locked-in. Forse ha mosso un dito della mano, prima di addormentarsi. Affianco alla valigia. Da lì dentro, dalla valigia, una moleskine riposava, senza compagnia, di fianco a Teresa, e lo fece per qualche ora.

martedì 7 luglio 2009

Black Bombay

Aprì la finestra per far entrare un po' d'aria. Era nuda, ma la finestra della sua camera dava su un piccolo boschetto non molto fitto che si dipanava alle spalle di casa sua. Nessuno avrebbe potuto vederla, né nuda né in nessun altro modo. Prese il piccolo innaffiatoio di finto design che aveva comprato qualche mese prima da Ikea, quando aveva deciso che le piante avrebbero potuto sostituire il muro come compagno dei suoi discorsi notturni. Si era impegnata ed era stata anche abbastanza capace: ora il davanzale della sua finestra ostentava petunie rosa e piante bulbose dai fiori arancioni, oltre che ibiscus e qualche sempreverde di cui non conosceva il nome. Inclinò l'annaffiatoio e l'acqua iniziò a sgorgare bagnando le foglie, scorrendo su di queste fino a gocciolare su un terreno arido che non aspettava altro momento dal giorno precedente. Qualche insetto che non poteva riconoscere svolazzò via, allontanandosi dal pericolo. Luisa avrebbe dovuto mostrare paura, ma invece continuò a nutrire le sue piante. Ne faceva un discorso probabilistico: 1 su 3.
Aveva letto da qualche parte, forse su una rivista di divulgazione scientifica, qualcosa a proposito del colore degli insetti. Era rimasta impressionata. In natura tutto sembra aver un perché o forse è l'uomo che è capace di trovare sempre un perché alle cose. Lei alla fine una spiegazione se l'era data e si era detta che l'evoluzione, ovvero la fottuta arte di sopravvivere a questo mondo, aveva fornito un significato biologico a tutte le cose così come le vediamo noi oggi.
La colorazione degli insetti può essere suddivisa in premonitrice, foberica o mimetica: la prima è propria delle specie che non hanno nulla da nascondere, anzi che hanno qualcosa da paventare; è pressappoco come il giornalista che appende al proprio collo il tesserino "press" o come il cartello "attenti al cane" posto in bella vista sul cancello di sfarzose ville. In altre parole i colori premonitori sono di quegli insetti col pungiglione. Sono lì a dichiarare, in virtù dell' io pensante entomologico: io vado sui miei fiori e voi mi lasciate in pace! Le colorazioni mimetiche appartengono invece a quelle specie che, pur di sopravvivere e incapaci di offendere, si travestono da gradassi, da insetti velenosi, o che si nascondono, imitando, l'ambiente circostante, appunto mimetizzandosi. Alle specie foberiche manca invece in comportamento imitatorio, la capacità di imitare, e le loro colorazioni producono immagini terrifiche senza una specifica e appropriata corrispondenza a organi di offesa.
Luisa non era un'esperta di insetti e non poteva affermare con sicurezza se quegli insetti poggiati proprio sulle sue piante, fossero di una specie o l'altra. Sì! apparivano brutti, velenosi, aggressivi, ma in quella fase della sua vita era incapace nella valutazione dei rischi e le era più semplice ragionare in termini probabilistici: quegli insetti avevano il 33,3 periodico di probabilità di avere sul proprio guscio croccante colori realmente premonitori.
1 caso su 3.
Alta frequenza, ma accettabile.
Con questi pensieri Luisa finì di innaffiare le sue piante, socchiuse la finestra, lasciando un piccolissimo spazio inadatto all'ingresso di grossi insetti e si rimise nuda a letto, recuperando una mezza canna di Black Bombay, lasciata la sera prima a spegnersi nel posacenere. L'accese continuando a riflettere al suo esercizio di stile coi numeri, le probabilità e le frequenze.
L'errore di fondo che aveva commesso e che forse rendeva numeri da giocare i risultati delle sue operazioni era il seguente: Luisa si trovava in Italia, grossomodo all'altezza del 41° parallelo, a due centimetri da livello del mare e per di più in una metropoli. La probabilità che quegli insetti non fossero api, vespe o calabroni, ma sesidi, sembrava ora essere bassissima.

sabato 4 luglio 2009

Peacemaker

Aveva i capelli legati: forse per comodità o forse perché sapeva che a lui piaceva così. Non era una visita di cortesia né un incontro dal basso profilo: lei lo sapeva e probabilmente per questo decise di usare tutte le armi in suo possesso, comprese quella della seduzione. Non per questo si lasciò andare a soluzioni eccessive, volgari o di bassa fattura. Aveva un maglioncino a collo alto, viola come il mosto, aderente al punto da esaltare i suoi seni perfetti prima di accompagnare verticalmente la sua pancia piatta. Era stupenda. Come sempre. Stefano aprì e nel vederla il fiato gli si fermò in gola per un istante. Era stupenda.Come sempre. Ma la reazione di Stefano non era stata quella ogni volta: spesso era come noncurante, indifferente alla sua bellezza , distratto da altro, da routinarie questioni che gli riempivano le giornate e dettavano il loro scorrere senza che lui ne avesse pieno controllo. Quella volta, invece, non fu così ed era probabilmente perchè un moto d’inquietudine aveva iniziato a dare segni di sé, minacciando un periodo d’instabilità o forse un lutto. Ricordava di aver sentito in un telefilm che guardava da ragazzo una frase che gli era rimasta impressa: solo quando è buio riusciamo a vedere le stelle. Il buio stava avvicinandosi. Lo temeva. “Ciao Lisa, entra.” Lei accennò un bacio, sfiorandogli le labbra, poi lo strinse a sé, ponendogli una mano gelida sulla schiena. Lui dovette resistere, perché in quell’abbraccio c’era tutto il calore della terra. “Scusa se sono in anticipo, ma ero al centro e…” “Non preoccuparti: dammi due minuti e sono da te” rispose lui. Lisa lo guardò mentre saliva le scale per andare al piano di sopra, dove c’era la sua stanza e il bagno. Poggiò la borsa a terra ai piedi della poltrona e lì si sedette. Riusciva ancora a percepire il calore: qualcuno c’era stato seduto poco prima ed immaginò cosa stava facendo Stefano prima che lei arrivasse. Forse era lì a fumare una canna, ma non sentiva puzza di fumo o odore di erba e non c'era alcun posacenere nelle vicinanze. Girò lo sguardo verso il pouf dove era poggiata la tromba, ma no! non poteva essere: se stava suonando l'avrebbe sentito a un isolato di distanza. C’era un’unica risposta e lei ne era consapevole: Stefano stava preparandosi all’incontro e il suo anticiparsi aveva interrotto i suoi programmi. Effetto sorpresa. Era in vantaggio. Era come aver sorpreso il nemico di spalle: l’unica differenza era che sul suo collo prominente avrebbe voluto poggiare la sua bocca e non la lama affilata di un coltellaccio. Il risultato sarebbe stato il medesimo: Stefano sarebbe capitolato. Sconfitto. Battuto. Si sporse di lato a raccogliere la borsa e si mise a cercare qualcosa . La borse delle donne. Come il portatile per un uomo. Regno dei propri segreti. La mela addentata sul dorso del mac di Stefano era illuminata. Ecco! forse era quella la strada giusta, forse Stefano stava lavorando al computer. Lasciò perdere la borsa e si alzò per andare verso la scrivania. Safari era aperto sulla casella di posta elettronica: dove finisce la libertà tua e inizia la privacy del tuo compagno? Rimase perplessa ed interdetta. Era tanto che non si scrivevano. Parlavano abbastanza, ma quelle poche volte che avevano avviato un carteggio c’era stato qualcosa di più profondo. Lo scriversi riusciva a frenare gli impulsi, a domarli, rendendo il discorso esente da toni esagerati: in definitiva qundo si erano scritti erano riusciti a comunicare davvero, alleviando la vergogna, minimizzando le paure, trasmettendo quello che, occhi negli occhi, non si sarebbero mai detti. La casella inbox strabordava di messaggi di un certo Luca. Quel nome non lo conosceva. Uno più uno: non conosceva Stefano. Blocco. Silenzio. Arresto. Fu il rumore dei passi di Stefano a darle uno scossone. Si mosse, allontanandosi dalla scrvania, dal mac e dai quei pensieri. Riprese la borsa. “Che fai?” le chiese, una volta che era arrivato giù, con indosso una camicia tibetana a righe verdi chiare e scure. “Preparo una canna” rispose, mettendo sul tavolino cartine, sigarette e una bustina trasparente piena zeppa di Peacemaker.


domenica 3 maggio 2009

Peacemaker | 15 minuti prima

Aveva una dannata voglia di fumare.
Al contempo non si sarebbe mai perdonata se ogni parola pronunciata dalla sua bocca fosse stata accentata dal fetido odore di una sigaretta consumata alla maniera in cui un recluso fa sesso con la prima puttana, avidamente, in un motel fuori città con una porta sul retro. Non con lui. Non questa volta.
Avrebbe potuto prendere la metro, così il divieto imposto sarebbe diventato egida della sua ignavia.
Ma erano solo due fermate e il sole, sebbene sbiadito da un sottilissimo strato di bassa pressione, riusciva ancora a trasmettere un po’ del calore che mancava sulla terra ferma. Sarebbe stata una piacevole passeggiata: 15 minuti, non di più, per mettere ordine tra i suoi pensieri, per chiudere una questione e iniziarne un’altra. Aveva avuto da sbrigare delle commissioni per suo padre, ritirare documenti, districarsi tra la burocrazia, sapendo di non avere il tempo a proprio favore. Non aveva avuto modo di pensare. E si era anche innervosita. Lo stress che le si leggeva in volto le conferiva un’aria tesa e per questo interessante, donava profondità al suo sguardo. Profondità che lei percepiva e anzi usava per vivere la sua giornata come in una ripresa a tutto campo, misurando perfettamente la distanza tra sé e gli altri, gli oggetti, le azioni. Guardava l’angolo, pronta a fissare l’ ostacolo che avrebbe incontrato svoltandolo.
Si infilò gli occhiali da sole e si incamminò.
Non ci volle molto perché tutto ciò che le stava intorno divenisse estraneo, esterno alla coscienza, come quelle immagini che scorrono via oltre il finestrino di un treno in corsa. Tu, con il capo reclinato da un lato, guardi oltre, altrove e gli alberi fitti, rigonfi di verde si susseguono in fila, decine e poi centinaia, ma non ha importanza, perché per te è sempre la stessa scena di sottofondo, come un desktop a cui non si presta più attenzione. Lei stava lentamente immergendosi in altri pensieri che stentavano però a prendere forma. Quella telefonata, la sua voce: aveva avvertito un disagio, ma non era come tutte le altre volte, quando Stefano condivideva con lei i suoi problemi, cercando un consiglio, un parere da un punto di vista altro. Quella volta c’era stato un silenzio, un’occasione mancata. Lo aveva chiamato come solo lei faceva, usando quel diminutivo perché fossero più vicini, perché non vi fosse una latenza di risposta più lunga del dovuto. E invece ad input non corrispose output e questo significava che il meccanismo era rotto, mal funzionante o quanto meno in stand-by. Come in una stanza buia quando la mano sicura afferra l’interruttore ma al click non succede nulla, il buio persiste e la mano, meno sicura, è protesa in avanti a riconoscere ostacoli che la vista non può individuare. E ora lei si trovava in quel buio, procedendo a tentoni, con le mani protese in avanti, cercando il volto di Stefano. Perché se è vero che il telefono rappresenta un filtro, perché protegge dagli sguardi, e che le parole possono essere usate a piacimento, gli occhi non mentono. Avrebbe preso la sua faccia tra le mani e l’avrebbe guardato negli occhi. Gli occhi rivelano.
Si sfilò gli occhiali da sole e li ripose nella borsa.
Era arrivata.
Ebbe un attimo di esitazione davanti alla sua porta. Aveva i capelli legati: prese la coda tra le mani e ne fece due ciocche che tirò da parti opposte per garantire la tenuta dell’elastico da cui la coda nasceva. Fece un sospiro avvicinando tra loro i baveri del trench in modo che da sotto spuntasse solo il collo alto di un maglioncino viola come il mosto. Viola come il quadrante dell’orologio che indossava.
Non c’era bisogno di leggere l’ora: era in anticipo.

venerdì 1 maggio 2009

Postumi di Caramello Royale

Si era cucinato un piatto di pasta svogliatamente, più per la fame chimica che lo aveva assalito, che per fisiologico appetito. L’aveva mangiato alla svelta, in piedi, guardando al di là della finestra, verso il prato su cui aveva dormito l’ultima notte. Mancavano ancora un paio d’ore: bastavano per mettere ordine e per fare una doccia. Nonostante non fosse il primo appuntamento, nonostante si frequentassero da un bel po’, nonostante l’avesse già visto in condizioni peggiori e avesse vissuto quella casa in situazioni a dir poco disastrose, nonostante tutto, Stefano aveva voglia di mettere in ordine. E iniziò a farlo con la smaniosa precisione di chi ha ospiti importanti per la cena.
Lo stress rende nervosi, spinge in down il proprio baricentro emozionale, accelera il battito cardiaco, prepara la mano ad un colpo piuttosto che ad una carezza, ma in definitiva rende più efficienti: in poco più di mezz’ora Stefano aveva messo tutto in ordine o quasi, ma così poteva bastare. Era un risultato accettabile per un single lavoratore che vive da solo. Sembrava accogliente, le luci al punto giusto, con quella lampada accesa nell’angolo e la luce esterna filtrata da una tenda arancione. Mise una bottiglia di vino bianco in fresco e si infilò sotto la doccia. Cantaloupe Island risuonava lontana, ma abbastanza ad alto volume perché la sentisse al di là dello scorrere dell’acqua.
Ci sono brani, soprattutto quelli in lingua madre, che ti fagocitano: sei preso nel ripercorrerne il testo, più o meno significativo che sia, ti conducono dove loro vogliono, verso significati immaginati e visualizzati dal cantante. Esistono poi brani da ascoltare in sottofondo, che lasciano spazio per pensieri propri, che accompagnano la genesi dell’idea, il suo crescere, ingrandirsi, il suo rievocare immagini. In quel momento Herbie Hancock suonava con enfasi il suo piano, Cantaloupe era il tema, ma Stefano pensava ad altro o tentava di farlo: le pareti della cabina doccia erano diventate opache per il vapore, i polpastrelli iniziavano a mostrare i segni di imbibizione per la prolungata esposizione all’acqua, Stefano aveva già fatto pipì senza mantenerselo, come sempre gli capitava sotto la doccia, come un bambino che se la fa sotto durante la notte, liberandosi, rilasciando la vescica senza doversi porre il problema di dover centrare il wc. La chiamano enuresi notturna, la diagnosticano e la curano. Lui non aveva di questi problemi, ma sotto la doccia si concedeva sempre questa libertà: enuresi selettiva avrebbe potuto chiamarsi. Quale fosse il significato non lo sapeva, ma in fondo se ne fotteva. La temperatura nella cabina doccia saliva man mano, il tepore lo avvolgeva, ma il suo cervello era come criocongelato., ibernato, rallentato , limitato nell' esecuzione delle minime funzioni: mantenerlo in stazione eretta. Uscì dalla doccia, si asciugò velocemente con un telo che poi gettò nel cesto dei panni sporchi ed andò a sedersi sulla poltrona, nudo, con il cd che continuava ad andare. Avrebbe voluto prepararsi all’incontro, ma non c’era storia. Avrebbe voluto prepararsi un discorso, ma forse avrebbe avuto bisogno di un portaborse che lo facesse per lui. Il problema si sarebbe posto in ogni caso perchè lei non era una di quelle giornaliste qualunque sedute in platea. Lei era…
Il campanello trillò.
Si alzò per guardare dallo spioncino: era lei.
In anticipo.
Le disse di aspettare un momento.
Si infilò una tuta e a torso nudo, con il cuore a mille, andò ad aprire.

lunedì 13 aprile 2009

Postumi di Charas | lei

Erano trascorsi ormai una trentina di minuti. Teresa era seduta sul letto, con la schiena leggermente ricurva in avanti e le mani l’una nell’altra, la destra nella sinistra. Fissava con lo sguardo la valigia aperta sul letto: era vuota.
Erano trascorsi ormai una trentina di minuti da quando era rincasata. Gli occhi ancora pieni di lacrime, il viso segnato, il trucco che, scioltosi, le conferiva un’espressione stanca, rinunciataria, distrutta. Aveva preso la valigia dall’armadio e l’aveva poggiata sul letto e poi fu horror vacui.
Si domandò cosa avrebbe dovuto portare con se, ma non fu capace di darsi una risposta. Forse l’errore era nella domanda e quelle giuste erano: dove stava andando? cosa cercava? perché? Fissava la valigia davanti a se, ma era distratta, gli occhi rigonfi di lacrime che scendevano perché da tempo ormai non sbatteva le palpebre, quasi a voler ricercare un altro modo di vedere. Si dice che i ciechi abbiano altri modi di vedere le cose, forse quelli giusti, forse quelli attraverso cui il senso delle cose appare nella sua interezza. Lei aveva gli occhi sbarrati. La valigia continuava ad essere vuota. E nelle orecchie risuonava una canzone, messa in loop, una ripetizione che durava ormai da mezz’ora, a scandire un tempo che scorreva senza senso alcuno.
È so isso/ não tem mais jeito/ acabou, boa sorte.
Probabilmente c’era più verità in queste parole che in tutte le sacre scritture: nulla di più vero, nessuna alternativa. Era finita e buona fortuna a te, Davide, ora devo andare. Un battito irregolare le risalì dal petto fin su, a livello delle tempie e quell’esplosione rappresentava solo il prodromo di un mal di testa che di lì a poco l’avrebbe piegata in due dal dolore. Acabou… eppure c’era qualcosa che non andava e la valigia vuota davanti a lei era lì a farglielo capire.
Não tenho que dizer/ são sò palavras/ e o que eu sinto/ não mudarà.
Lo amava, credeva di amarlo ancora, ma era troppo facile dirlo eppure troppo difficile perché quel sentimento in quella situazione strideva come unghie affilate strisciate su di una lavagna. Lo amava davvero? Se sì, da dove originava quel malessere: perché uno non è in grado di cibarsi del sentimento che vive, perché si è alla ricerca d’altro, pur consapevoli che quello che si ha è forse di quanto più grande mai avuto e che mai si avrà? Le domande si accavallavano, mentre le risposte stentavano ad arrivare: erano solo parole, che per quanto ricercate non riuscivano a descrivere il caos dentro di lei. Le parole categorizzano, pongono delle etichette, rendono statico un qualcosa che è dinamico, che va avanti per poi tornare indietro, modificato, alterato nella forma e nella sostanza. Parole e niente più.
Hà um desencontro/ veja por esse ponto/ hà tantas pessoas especiais.
E infine le parole che tentano di rispondere o meglio che ti mettono davanti alla realtà, nuda e cruda, nella sua interezza. C’è una disconnessione, guardala così, ci sono tante persone speciali. C’è una disconnessione. Disconnessione. Disconnessione.
C’è una disconnessione.
Lo ripeteva perché doveva abituarsi all’idea. Lo ripeteva perché era così. Lo ripeteva e ancora e ancora e ancora, a mo’ di stereotipia mimando il punding dell’eroinomane in crisi d’astinenza.
Hà un desencontro.
C’è una disconnessione.
Eppure la valigia era ancora vuota…