giovedì 23 luglio 2009

Libanese

Senza poter muovere un braccio. O la gamba. O un dito del piede. Senza poter alzare la testa dal letto o girarla per vedere chi è entrato. Unico movimento consentito: aprire e chiudere le palpebre. Se lo si vuole considerare un movimento, è possible anche muovere verticalmene gli occhi, ma non lateralmente. Senza poter parlare. Senza poter mangiare. Senza poter espandere attivamente la gabbia toracica. Pur riuscendo a capire tutto quello che sta succedendo. Locked-in syndrome. Rinchiusi nel proprio corpo. Una mente, due occhi che guardano sempre il soffitto o il passante di turno che mette il suo faccione davanti al tuo, chiedendoti: “come va oggi?” “Una merda” diresti se potessi parlare. Però lo pensi. E pensi a tanto altro. Solo quello ti è possible fare. I più intelligenti o i medici ti pongono domande a cui puoi rispondere sì (chiudendo gli occhi una sola volta) o no (ammiccando due volte). Ma nessuno sa cosa significa. Le vie del dolore sono integre e allora quello lo senti. Ovunque. Diventa tuo compagno di viaggio. Ti accompagna verso l’unica meta possible. Alla maniera in cui quei due aspettavano Godot. E lui non arriva. Non si sa chi sia. E la morte non arriva. Non si sa chi sia. E trascorrono i giorni o le ore. Tu pensi. Dormi. Ti svegli e non sai quand'è. Che è ora. Che verrà a prenderti. Pensante, ma paralizzata. La mente talvolta fa brutti scherzi, si annebbia, crea illusioni. La valigia era ancora vuota. Fece un tiro da una canna di Libanese. Il migliore in circolazione. Lo chiamavano El Kolch dello Zahret. Chissà cosa voleva dire. Anche la canna si era inumidita, bagnata dalle lacrime che scendevano giù, come pioggia. Stava impazzendo. In un vortice di pensieri, paure, ansie, cose nuove da voler scoprire, emozioni, voglia di altro, voglia di abbandonare quel passato e questo presente ormai vecchio. In un vortice. Sbagliato. Il vortice dentro di te. E il corpo immobile. Paralizzato. Una sensazione come di vertigine. Tutto che rotea. Dentro. Locked-in. Fuori nessun gesto, nessuna azione. Essere fermi e sentirlo. Capire che il colpo è stato sparato, tutti sono partiti già e tu sei ferma ancora alla griglia di partenza. L’ inizio di un nuovo percorso. Inizia il viaggio. Teresa poggiò la canna nel posacenere e si alzò. Prese un pacchetto dalla scrivania e lo lanciò nella valigia. La prima pietra era stata posta. Il viaggio era davvero iniziato. Finalmente. Si sedette davanti al pc. Hotmail.com. Scrisse una mail. Il giorno dopo sarebbe partita e nessuno dei suoi amici portoghesi lo sapeva ancora. Scrisse a Diana. Fu sintetica: amanha chego no porto. Arrivo domani. Cliccò sul tasto INVIA e andò a stendersi di fianco alla valigia, non più vuota. C’era una sola cosa dentro. Per di più vi era stata lanciata. Era stato necessario un moto di violenza per innescare quel processo. Era stato necessario uno stimolo efficace. Non più locked-in. Forse ha mosso un dito della mano, prima di addormentarsi. Affianco alla valigia. Da lì dentro, dalla valigia, una moleskine riposava, senza compagnia, di fianco a Teresa, e lo fece per qualche ora.

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