sabato 13 dicembre 2008

Sinsemilla | due

“Cosa è per te l’oceano?”
Marco sorrise e accettò la canna che Kya gli stava porgendo. Fece due tiri profondi, per prendere tempo. Non aveva difficoltà a parlare con lei. Lei era una delle poche persone disposte ad ascoltare mettendosi in gioco, con empatia, senza il distacco che i medici o gli psicologi devono avere o che i disinteressati hanno quando ascoltano distratti, quasi annoiati. Il problema era tutto suo. Non era predisposto al dialogo, abituato com’era a tenere tutto dentro, tentando di canalizzare tutte le sue pulsioni in altro, razionalizzandone analiticamente i contenuti per cacciarne fuori qualcosa di buono.
In silenzio.
Era stato abituato a cavarsela da solo sin da quando era bambino. Sempre e comunque. Era stato abituato così o per chissà quale motivo sconosciuto, così si era abituato a fare.
“Una massa d’acqua senza limiti” rispose poi di getto. Ci fu la pausa di un tiro, poi riprese: “Questo in matematica sarebbe un paradosso: ci sentiamo sicuri sulla terra ferma illudendoci che lì l’acqua non possa arrivare, crediamo che le coste rappresentino il limite che l’oceano non può superare, uno stop invalicabile e sulla terra ferma costruiamo strade e grattacieli, stadi, scuole e chiese in nome di un Dio che plachi l’animo dell’oceano, che lo sedi e lo silenzi e anzi, ci prendiamo gioco di lui, costruendo ponti tra terre lontane, come a voler ricucire lembi di carne sfregiata, ignorando il motivo per cui l’oceano è lì a dividerli…”.
Un nuovo tiro più profondo dalla canna di Sinsemilla gli concesse una pausa non più lunga della precedente, ma più carica ed intensa, struggente. Kya era completamente dentro quella pausa, come immersa in calda acqua amniotica, senza moto apparente, in un tempo come cristallizzato.
“L’oceano ogni giorno ce lo ammonisce; il suo andirivieni sulla battigia, il suo agitarsi continuo, il suo scalpitare senza fine e la sua calma apparente sono lì a pronta lettura: il limite non esiste. Ovvero, se esiste è mutevole, soggetto solo alle leggi divine, per chi in un Dio vuole credere per forza.”
Stavolta il tono della voce di Marco indicava una battuta d’arresto, un porgere il testimone all’interlocutore. Kya riemerse da quella tiepida acqua avvolgente, il suo sguardo cadde su quel foglio appena letto che aspettava sul tavolo, accanto al Porto-tonic, che lei gli concedesse il suo sguardo una altra volta. Kya rispose con la stessa fatica del primo gemito.
“L’oceano non appartiene necessariamente alla vita umana e nella nostra vita i limiti esistono.
Le persone di cui parli…” e indicò quel foglio scritto chiaramente dal pugno di Marco, “… alla fine non si incontrano, un limite le ostacola: una porta di legno sordo e una telefonata senza risposta. Tu stesso hai messo un punto al tuo scritto, hai posto un limite…”
Lui la interruppe: “No! Quel punto è come il segno che l’onda lascia sulla sabbia quando si ritira. Quel segno scompare, assorbito dal basso, restituito all’acqua madre. E quel punto non c’è più. In quel punto c’è il domani dell’esame, è un punto proiettato al futuro, eppure già passato. Tra uno e l’altro di quei righi puoi caderci, sprofondare nel vuoto senza avere mai la possibilità di toccare il suolo. Quel punto è solo la coda visibile di una scia che scorre via, una scia invisibile allo sguardo perché prolungamento dello stesso verso il punto”. Fece una pausa, compiendo l’ultimo sorso del succo che gli era rimasto nel bicchiere. Kya lo imitò e anche lei fece l’ultimo sorso.
“In quel punto c’è il risultato di un esame, c’è il dolore della mancata condivisione, c’è la gioia, c’è il presente che vivo, c’ è il rimpianto di non essere partito, la convinzione di dover completare qualcosa qui…”
E il tempo si sospese: Marco e Kya, immobili, rimasero a lungo in silenzio, ognuno nascosto dove la Sinsemilla li aveva condotti, ognuno confinato in una piega del discorso, guardando lontano, verso la città lontana dove il tempo scorreva, ma sembrava andare lentissimo.