domenica 3 maggio 2009

Peacemaker | 15 minuti prima

Aveva una dannata voglia di fumare.
Al contempo non si sarebbe mai perdonata se ogni parola pronunciata dalla sua bocca fosse stata accentata dal fetido odore di una sigaretta consumata alla maniera in cui un recluso fa sesso con la prima puttana, avidamente, in un motel fuori città con una porta sul retro. Non con lui. Non questa volta.
Avrebbe potuto prendere la metro, così il divieto imposto sarebbe diventato egida della sua ignavia.
Ma erano solo due fermate e il sole, sebbene sbiadito da un sottilissimo strato di bassa pressione, riusciva ancora a trasmettere un po’ del calore che mancava sulla terra ferma. Sarebbe stata una piacevole passeggiata: 15 minuti, non di più, per mettere ordine tra i suoi pensieri, per chiudere una questione e iniziarne un’altra. Aveva avuto da sbrigare delle commissioni per suo padre, ritirare documenti, districarsi tra la burocrazia, sapendo di non avere il tempo a proprio favore. Non aveva avuto modo di pensare. E si era anche innervosita. Lo stress che le si leggeva in volto le conferiva un’aria tesa e per questo interessante, donava profondità al suo sguardo. Profondità che lei percepiva e anzi usava per vivere la sua giornata come in una ripresa a tutto campo, misurando perfettamente la distanza tra sé e gli altri, gli oggetti, le azioni. Guardava l’angolo, pronta a fissare l’ ostacolo che avrebbe incontrato svoltandolo.
Si infilò gli occhiali da sole e si incamminò.
Non ci volle molto perché tutto ciò che le stava intorno divenisse estraneo, esterno alla coscienza, come quelle immagini che scorrono via oltre il finestrino di un treno in corsa. Tu, con il capo reclinato da un lato, guardi oltre, altrove e gli alberi fitti, rigonfi di verde si susseguono in fila, decine e poi centinaia, ma non ha importanza, perché per te è sempre la stessa scena di sottofondo, come un desktop a cui non si presta più attenzione. Lei stava lentamente immergendosi in altri pensieri che stentavano però a prendere forma. Quella telefonata, la sua voce: aveva avvertito un disagio, ma non era come tutte le altre volte, quando Stefano condivideva con lei i suoi problemi, cercando un consiglio, un parere da un punto di vista altro. Quella volta c’era stato un silenzio, un’occasione mancata. Lo aveva chiamato come solo lei faceva, usando quel diminutivo perché fossero più vicini, perché non vi fosse una latenza di risposta più lunga del dovuto. E invece ad input non corrispose output e questo significava che il meccanismo era rotto, mal funzionante o quanto meno in stand-by. Come in una stanza buia quando la mano sicura afferra l’interruttore ma al click non succede nulla, il buio persiste e la mano, meno sicura, è protesa in avanti a riconoscere ostacoli che la vista non può individuare. E ora lei si trovava in quel buio, procedendo a tentoni, con le mani protese in avanti, cercando il volto di Stefano. Perché se è vero che il telefono rappresenta un filtro, perché protegge dagli sguardi, e che le parole possono essere usate a piacimento, gli occhi non mentono. Avrebbe preso la sua faccia tra le mani e l’avrebbe guardato negli occhi. Gli occhi rivelano.
Si sfilò gli occhiali da sole e li ripose nella borsa.
Era arrivata.
Ebbe un attimo di esitazione davanti alla sua porta. Aveva i capelli legati: prese la coda tra le mani e ne fece due ciocche che tirò da parti opposte per garantire la tenuta dell’elastico da cui la coda nasceva. Fece un sospiro avvicinando tra loro i baveri del trench in modo che da sotto spuntasse solo il collo alto di un maglioncino viola come il mosto. Viola come il quadrante dell’orologio che indossava.
Non c’era bisogno di leggere l’ora: era in anticipo.

Nessun commento: