lunedì 21 maggio 2007

Postumi di Afghano

Luca era appena andato via.
Seduto sul divano, i neuroni che scaricano con frequenza bassissima ovvero con i pensieri rallentati, le endorfine e i cannabinoidi in circolo che schizzano dolcemente da un sito del cervello all’altro, accompagnando i neuroni sopiti verso il piacere, Stefano si godeva un momento di reale solitudine. Nonostante fosse ancora nudo si era acclimatato, la sua temperatura interna in scia con quella ambientale, risultando sulla sua pelle un piacevole calore.
Rimase così, immobile, il tempo necessario a riprendersi dal sesso e dalla canna.
Dopo aprì gli occhi e decise di suonare.
La prima volta che provò a suonare la tromba impiegò due giorni per emettere suono alcuno. Dopo i primi infruttuosi tentativi si era quasi convinto che fosse rotta. In realtà non riusciva a immettere aria a sufficienza per produrre un suono.
L’aria insufflata attraverso il bocchino percorre la tubatura dello strumento in modi differenti: i pistoni, che hanno possibilità di movimento verticale sul proprio asse, modificano il percorso operato dal flusso d’aria, creando turbolenze e vibrazioni. L’aria scivola lungo le pareti, sbatte contro gli ostacoli, si carica di energia, trema, si infila, poi nella campana il suono prodotto dalle sue vibrazioni si amplifica per fuoriuscire ed esprimersi al mondo, orgoglioso del difficile percorso eseguito.
Non era una questione di polmoni, ma di energia.
Stefano col tempo acquisì la capacità di modificare il suono prodotto dalla tromba, e quindi di suonare in tutte le ottave, variando la pressione delle labbra sul bocchino e la potenza dell’insufflazione. Energia interna che si proietta all’esterno sotto altre forme.
Come un ballo in maschera.
Prese la tromba, ma fu il silenzio.
Si ritrovò, come la prima volta, a non riuscire ad emettere suoni. Gli bastò il secondo tentativo per lasciar cadere a terra la tromba, producendo un rumore sordo e metallico. Si angosciò. Pentagrammi che si dipingono di nero. Imbarazzante silenzio d’attesa che diventa pesante. Anche a respirare.
Ricordò il personaggio di un romanzo di Mishima la cui sordità selettiva verso la musica era freudianamente associata alla sua frigidità e capì.
La sua bocca doveva divenire strumento di amplificazione per le cose che aveva dentro di se. La tromba per un attimo nel ripostiglio.
La musica che creava non era bastevole. Era giunto il momento per le parole.
Doveva parlargli. Doveva parlarle.

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