lunedì 7 maggio 2007

Purple Haze

Stappò la bottiglia di Verdicchio e ne versò un po’ nella padella. Ci fu una gran fumata. Con la cucchiarella continuava a rimestare il risotto affinché non si attaccasse e in modo che il vino potesse evaporare dolcemente lasciando al riso quel tipico sentore di mandorla amara.
Per Luisa la cucina significava vita: attraverso fuochi, ricette, spezie e padelle esprimeva la sua essenza. Già i colori del piatto che stava preparando avevano un significato ben preciso.
Il verde regalato dai carciofi: un verde non-speranza, un verde pazienza, un verde rassegnazione. Un verde amaro quanto i carciofi stessi.
E poi il rosa gamberetti: un rosa timido, che non ha la forza di imporsi, che cede il passo al robusto verde. Un rosa che si riscopre solo a intermittenza.
Mentre il risotto compiva la sua parabola di cottura, Luisa beveva, mangiucchiava e fumava una canna che ogni tanto lasciava spegnere nel posacenere: mise in bocca un pezzò di formaggio, fece due tiri e infine si attaccò avidamente al bicchiere in cui aveva versato poco più che un sorso di vino.
La cosa ando così per circa 25 minuti, tempo di cottura di quel risotto che aveva inventato di sana pianta, recuperando gli ingredienti disponibili in frigo.
Quando pensò che riso, carciofi e gamberetti fossero ben cotti e fusi insieme, spiattò e prese a mangiare.
Nulla di strano. Niente di eccezionale. Davvero un cazzo da raccontare, se non fosse per il fatto che l’orologio sulla parete segnava le 3.38 di notte e che Luisa aveva già mangiato una fetta di carne, un po’ di salumi, patate fritte e la pasta e piselli avanzata dal pranzo.
Quando finì di mangiare erano passati 9 minuti.
Prese il cellulare e scrisse velocemente un messaggio.
Aiutami…
Poi, con gli occhi pieni di lacrime non ancora versate, corse in bagno.


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